La testa della vipera. Bersezio Vittorio

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La testa della vipera - Bersezio Vittorio

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colpi in pieno viso, sporcandogli di quel sozzo umore occhî, naso, bocca e i panni. Il giovane, mezzo acciecato, mandò una grossa bestemmia, e mentre badava in tutta fretta a ripulirsi sputando, sternutando, purgandosi, gridava con voce soffocata dalla rabbia:

      – Ah! porco! ah cane d'un cane!.. Aspetta, aspetta, che ora ti schiaccio come una cimice.

      E appena ripulitosi un poco, fece per slanciarsi contro Lograve: questi, freddo freddo, teneva impugnato il coltello anatomico, e gli gridò con l'accento di una risoluzione irremovibile:

      – Se tu mi vieni addosso, ti pianto questa lama nel cuore, com'è vero il sole!

      Tutti i presenti capirono ch'egli avrebbe fatto quello che diceva: e gettatisi in mezzo, trattennero il furibondo che urlava:

      – Ah, mostricciuolo infame, caricatura di scimiotto, me la pagherai, mi darai soddisfazione.

      – Quanto e come e dove e quando vorrai, e ti so dir io che avrai finito di fare il gradasso e insultare la gente.

      I compagni intromessisi trassero via di là lo sbuffante giovane: e Lograve pensò subito a procurarsi due padrini che lo assistessero nel duello dall'avversario minacciato e da lui desiderato. Uno lo scelse fra i condiscepoli, l'altro volle che fosse il cugino Cesare, al quale piacevagli far conoscere la sua abilità nelle armi, la sua freddezza nel pericolo, la sicurezza della sua vendetta. Ai suoi rappresentanti egli commise di accettare qualunque arma fosse proposta, volle gli promettessero che quando troppo leggiere fossero le condizioni dello scontro dagli avversarî messe innanzi, essi le avrebbero rese più severe, essendo sua ferma intenzione di non fare una ridicola mostra, ma di compiere cosa seria e di gravi conseguenze. Fu scelta la pistola da tiro; la distanza quindici passi; alla sorte chi avrebbe tirato il primo; tanti colpi quanti fosse piaciuto ai combattenti.

      La mattina dello scontro, nel recarsi al convegno e là sul terreno, Cesare Danzàno, che non aveva mai preso parte a simili avventure, era assai turbato; turbati pure apparivano gli altri padrini, e turbatissimo l'avversario, giovane allegro, a cui la vita sorrideva, e che trovava doloroso l'arrischiarla così scioccamente per qualche imprudente malignità.

      Egli veniva a studiare da un paesello della provincia dove stava aspettandolo una famiglia, che fondava in lui le sue speranze, un padre ormai vecchio, una madre che lo idolatrava; e il pensiero che poteva rimaner morto lì adesso, e non più rivedere la casa natìa, nessuno de' suoi cari, gli stringeva il cuore, gli affannava il respiro, gli faceva tremare i nervi, gli metteva sulle guancie un pallore mortale. Emilio Lograve, colla sua solita carnagione di morticino, non mostrava la menoma alterazione in viso, aveva una mirabile sicurezza di atti, di voce, di parole, ed aveva lui, a sua volta, uno scherno sprezzatore nel sogghigno e nello sguardo. La sorte favorì l'avversario di Emilio col vantaggio di sparare il primo. Posti di fronte i duellanti e dato il segnale, Emilio non sentì neppure il fischio della palla, così passò essa lontana dalle orecchie di lui. Fissando bene in volto l'avversario ed abbassando lentamente la pistola, Lograve disse con accento pieno di sarcasmo:

      – Lo schifoso mostricciuolo, caricatura di scimiotto, ha la tua vita nelle mani… e te la regala. Mi contenterò di bucarti il cappello due dita al di sopra della testa.

      Sparò, e il cappello del giovane rotolò per terra. I padrini che lo raccattarono, mentre il padrone di esso rimaneva come sbalordito, videro con meraviglia come la palla avesse colpito esattamente al punto che il tiratore aveva detto.

      – E ora, disse Emilio con superbo disdegno, se al signore piace, ricominciamo pure.

      Tutti d'accordo i padrini determinarono che non si aveva da continuare altrimenti. Emilio fece un lieve cenno di saluto col capo, e s'allontanò fieramente, senza volere stringere la mano all'avversario.

      Di quel duello se ne fece un gran discorrere nella università e per tutta la città. Il giovane Lograve fu d'allora temuto, rispettato, non più amato di prima. In casa Danzàno, di quel fatto il padre ne fu assai dispiacente, e ne mosse severe rampogne a Cesare, il quale non nascondeva la sua ammirazione pel cugino; al figlioccio pure egli espresse la sua disapprovazione; ma Emilio con tanta umiltà seppe rispondere che, fatto segno a continui dispregi, aveva resistito e tollerato fino che aveva potuto, lasciando persino offendere la sua dignità personale, ma che, giunte le cose a tal punto che il tacere più oltre sarebbe stato viltà, egli aveva sentito che doveva a sè stesso e a' suoi congiunti medesimi di farsi rispettare, che il padrino finì per dargli ragione. Matilde non partecipava gli entusiasmi del fratello per quel sornione del cugino; ella scuoteva il suo bel capo riccioluto e non trovava che quello di sapere ammazzare freddamente altrui fosse un merito da compensare tutti i difetti fisici e morali ch'essa credeva notare in Emilio. La sorella di Cesare contava allora quindici anni ed erasi fatta ormai una giovinetta più bella ancora e piacente di quanto fosse stata da bambina: era di una mitezza d'animo e di una bontà di cuore davvero straordinarie: non poteva vedere a soffrire nessuno, avrebbe voluto sollevare ogni dolore, cambiare a tutti in gioja il tormento, avesse dovuto assumersi essa quest'ultimo: aborriva necessariamente i prepotenti, i crudeli, i maligni, i superbi.

      VII

      Emilio contava ventidue anni e aveva preso la laurea in medicina. Frequentava con bastevole diligenza l'ospedale a cui era stato addetto assistente, ma con più assiduità sempre le sale d'armi e i tiri a segno, viveva sceverato da ogni godimento, tenuto a corto com'era dalla malavoglia paterna.

      I soccorsi scarsi che con umiliante insistenza egli riusciva a strappare alla Marianna, non bastavano a gran pezza e si rodeva maledettamente nel paragonarsi a' suoi coetanei e sopratutto al cugino Cesare, fattosi uno dei giovani più eleganti, il quale godeva i vantaggi che in società si danno alla ricchezza.

      Ah! questa sì era una potenza; questa una forza nel mondo: e quando egli potesse averla, oh come ne avrebbe saputo trarre profitto! Qualche cosa del nonno materno, egli l'aveva intesa: era un avaro, usurajo, e di certo aveva lasciato morendo un vistoso patrimonio. Sapeva pure che il padre aveva giuocato e giuocava, ma non era possibile che avesse consumato sì grossa parte, che ne dovesse rimanere a lui la povertà: dei capitali ci dovevano essere ancora, fra i quali e lui non istava di mezzo che la vita del padre, d'un padre che lo aveva sempre maltrattato, che l'aveva sempre odiato e odiava nè celava il suo odio, e cui egli non amava, come non poteva stimare. Ah! no certo ei non avrebbe mosso un dito perchè quella vita si troncasse, ma se il caso avvenisse!.. Egli pensava senza ripugnanza a siffatto caso: domandava alle cognizioni mediche acquistate di chiarirlo se e quando quel caso potesse avverarsi, e scrutava nella faccia del padre i segni del progresso di un male interno, che in realtà ne minacciava i giorni.

      La tumefazione delle guancie, l'impaccio della parola, l'accasciamento della persona, la incertezza del passo, rivelavano una lenta paralisi cerebrale, che poteva di colpo avere una fatale risoluzione.

      Lorenzo s'accorgeva di questo affissarlo del figliuolo, per quanto i falsi occhî di lui sfuggissero ratti, appena quelli paterni facessero a incontrarli, e se ne irritava, quasi indovinandone il segreto motivo.

      – Che cos'è che mi guardi con quel tuo occhio di serpe? gli gridava incollerito. Hai paura che io stia troppo bene?

      Emilio non rispondeva; arrossiva un poco e si allontanava a capo basso.

      Pensava:

      – Una buona cura dietetica, un cambiamento assoluto di vita, qualche rivulsivo varrebbero ad allontanare il pericolo. Guarirlo, impossibile; ma prolungargli resistenza chi sa per quanti anni, sì… Ma egli non mi crederebbe, nè mi darebbe retta, farebbe peggio… È lui che sel vuole… Ciascuno è padrone della sua vita… Faccia a suo senno.

      Una notte Lorenzo Lograve tornò a casa con passo più vacillante del solito, gli occhî pieni di sangue, la lingua grossa, le labbra livide.

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