La famiglia Bonifazio; racconto. Caccianiga Antonio

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La famiglia Bonifazio; racconto - Caccianiga Antonio

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di sostenersi ad un albero per non cadere; poi fatto animo e ripreso fiato si gettò nelle braccia loro esclamando:

      – Dove è Gervasio?..

      – È partito… risposero, ma speriamo di rivederlo fra poco…

      – È morto! essa gridò con accento straziante, il mio povero Gervasio è morto!.. sarebbe qui di sicuro se non fosse morto!..

      Non voleva persuadersi che fosse partito, che avesse preferito l'esilio alla casa paterna, alle cure di sua madre!

      – Ha preferito l'esilio all'umiliazione di vivere sotto il giogo dei nostri nemici, come tanti altri suoi compagni, le disse il marito; ma le cose non possono durare a questo modo, – e manifestando tutte le illusioni di quel tempo, si studiava di provare l'impossibilità d'un lungo dominio austriaco in Italia, perchè i popoli coraggiosi possono tutto quello che vogliono; ma Maddalena non lo ascoltava più, baciava teneramente il suo Stefano, lo interrogava ansiosamente sulla ferita che gl'impediva di camminare, lo fece sedere in una poltrona, apportò dei ristori ai poveri viaggiatori sfiniti dai lunghi patimenti, dalla fame, dalla fatica del viaggio, in quello stato.

      Appena saputo il loro ritorno accorse anche il maestro Zecchini, e non finiva mai d'interrogarli sui più minuti particolari del memorabile assedio; si mostrò desolato per tante sventure, e voleva sostenere che bisognava rassegnarsi al destino, che era finita per sempre, che sarebbe assolutamente impossibile di vincere la potenza austriaca. Il capitano lasciò andare un pugno così violento sul tavolo che fece saltare i piatti e i bicchieri, e così incominciarono nuovamente le diatribe fra i due vecchi amici, che dopo l'assenza ritornavano a vivere insieme, sempre inseparabili, e sempre discordi.

      Intanto il Gervasio navigava verso la Francia, e pochi giorni dopo sbarcava a Marsiglia coi molti esiliati di Venezia, i quali si dispersero in vari paesi.

      Egli partì per Parigi colla speranza di trovare un'occupazione per non vivere a carico della famiglia. Ma in quel tempo la capitale francese rigurgitava di emigrati d'ogni parte d'Europa; le varie rivoluzioni del quarant'otto vi avevano gettato i loro naufraghi, che cercavano un rifugio. Tutte le passioni umane, e i diversi partiti politici si concentravano nel cervello del mondo; la vita era una lotta di forze contrarie che si agitavano convulse fra gli amari disinganni del passato, e le più esagerate illusioni dell'avvenire.

      Ad un'anima mite e senza ambizioni, come quella di Gervasio, la vita tumultuosa rendeva più doloroso l'esilio. Dopo lunga aspettativa gli venne offerta una cattedra di lingua italiana in Bretagna. Non esitò ad accettarla perchè sentiva anche il bisogno di quella pace campestre nella quale era stato allevato, e che gli mancava affatto nel movimento turbinoso della moderna babilonia.

      Ma il clima umido e triste della Bretagna accresceva la sua malinconia, e la vita solitaria gli faceva sentire doppiamente tutte le amarezze della nostalgìa. Non vide mai sorgere quel sole opaco dietro le nebbie, senza che il suo pensiero non lo trasportasse alla casa paterna; e la vedeva da lontano, illuminata dallo splendido sole d'Italia, e gli pareva di udire lo stormir delle fronde dei suoi boschetti, il pigolìo dei passeri al crepuscolo, credeva di respirare l'olezzo di quelle piante, e sentiva l'aria pura dei monti e del Piave, che gli sbatteva il viso, quando appariva il balcone della sua cameretta così piena di ricordi. La modesta stanza di Bretagna non aveva nulla che sorridesse alla memoria dell'emigrato; e i prospetti, l'aria, gli accenti, le esalazioni, tutto gli rammentava l'isolamento, e la lontananza della patria.

      I giorni delle feste solenni erano i più dolorosi. Tutti si raccoglievano lietamente alla mensa di famiglia, il povero emigrato viveva solo, colla memoria delle affettuose cure materne, delle abitudini domestiche del padre e del fratello, e della perduta compagnia degli amici.

      Bisognava cercare degli altri derelitti per fare insieme società.

      Conobbe allora i Ravelli, emigrati lombardi. La famigliuola si componeva del padre vedovo, del figlio Battistino, che fu ferito al Tonale difendendo quel passo alpino coi volontari, e di sua sorella Angelina, una buona ragazza di diciotto anni. Scambiavano fra loro le amarezze e i conforti comuni, dividevano i timori e le speranze, e quelle eterne illusioni degli esuli, sempre distrutte dagli avvenimenti, e sempre rinascenti dalle stesse rovine. Ogni primavera speravano il ritorno in patria per il prossimo autunno, ogni autunno per la ventura primavera; ma ogni volta che si credevano vicini al porto, una burrasca inaspettata li rigettava in alto mare. Tornato il cielo sereno, esaminavano l'orizzonte, e ad ogni nuvoletta lontana pronosticavano l'uragano che doveva sconvolgere l'Europa, far trionfare la libertà, e restituirli al loro paese; ma un venticello importuno rasserenava il cielo. Si lamentavano della indifferenza di tutte le nazioni per ciò che violava i loro diritti e il loro onore, vedevano in ogni piccolo alterco diplomatico un'offesa sanguinosa che rendeva indispensabile la guerra, aspettavano ansiosamente la dichiarazione desiderata; ma la pace si andava consolidando a loro dispetto, e l'esilio temporaneo diventava domicilio stabile degli emigrati. E così passavano gli anni, e intanto l'amicizia e l'amore fiorivano anche sulla terra straniera.

      Gervasio divenne intimo di casa Ravelli, fu il compagno inseparabile di Battistino, e non tardò a sentire per l'Angelina una profonda simpatia che a poco a poco si trasformò in reciproca affezione.

      Allora la primavera di Bretagna parve più bella ai giovani innamorati, che aprendo l'animo ai sentimenti e ai pensieri concordi, si creavano una nuova patria sul suolo straniero, la patria dell'amore, e così trovavano più ridenti quelle verdi campagne, più vaghi i fiori, meno fosco l'orizzonte, meno pallido il sole, e le notti azzurre e brillanti di stelle più belle delle notti italiane.

      Vivere insieme per amarsi sempre, e dimenticare tutto il resto, questa divenne l'unica aspirazione dei loro cuori.

      Dopo uno scambio di lettere colle rispettive famiglie in Italia, furono fidanzati; pochi mesi dopo si celebrò il matrimonio, e la terra di Bretagna parve un paradiso terrestre ai due sposi, nell'ebbrezza dell'amore soddisfatto.

      Passati dieci mesi venne alla luce un bel maschio, che per comune consenso dei due nonni fu battezzato col nome di Silvio, in segno di simpatia verso l'amico carbonaro, che fu prigioniero allo Spielberg, e di protesta contro il dominio straniero.

      Pareva che la felicità sorridesse pienamente alla nuova famiglia, quando una febbre insidiosa assalì la puerpera, e mise subito in dubbio ogni speranza. I sintomi più minacciosi si succedettero con terribile rapidità, e la malattia finì in pochi giorni con un lutto spaventoso.

      L'infelicissimo marito perdette la sua diletta compagna nel primo anno di matrimonio, il neonato perdette la madre nel primo mese di vita.

      Sotto il colpo inaspettato dell'improvvisa sventura, lontano dai cari parenti, fra il suocero e il cognato al pari di lui disperati, Gervasio risentì tutto il peso dell'esilio e dell'isolamento.

      La donna morta fu portata al cimitero colla sua candida veste di sposa; il bambino fu messo a balia; i Ravelli affranti dal dolore abbandonarono il paese, il povero esule rimase solo, fra una culla e una tomba, a piangere la sua cara compagna scomparsa; – solo senza patria, e senza famiglia!..

      V

      Anche la famiglia Bonifazio si sentì colpita crudelmente dalla sventura del figlio. Alle lagrime dell'esule corrisposero da lontano le lagrime dei parenti, privi del conforto di stringere fra le loro braccia affettuose il povero orfanello e il padre desolato.

      Così l'esilio colpisce sempre da due parti; tanto chi resta, che chi si allontana soffre egualmente, senza il sollievo del reciproco conforto, senza l'amara consolazione di piangere assieme.

      Stefano guarito dalla sua ferita, andava spesso a Treviso, ove aveva molti amici. Un bel giorno girovagando per le strade della città, fu colpito dall'aspetto di una di quelle ragazze del popolo, tanto famose

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