La famiglia Bonifazio; racconto. Caccianiga Antonio

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La famiglia Bonifazio; racconto - Caccianiga Antonio

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combinava gli accordi coi federali lombardi, i quali corrispondevano coi capi dirigenti degli Adelfi del Piemonte. La Costituzione latina era il loro statuto, che conteneva il piano fissato per effettuare una rivolta armata. Fra gli ufficiali del disperso esercito italiano i Carbonari si contavano a migliaia. Il colonnello si teneva in corrispondenza segreta con suo fratello Aristide, che annodava le relazioni della setta di Lombardia colle società segrete di Torino.

      La rivoluzione piemontese doveva scoppiare nei primi mesi del 1821, d'accordo coi Napoletani e i Lombardi.

      Esauriti gli argomenti da trattarsi i congiurati fissavano la notte pel successivo ritrovo, poi uscivano dal nascondiglio alla spicciolata.

      Il colonnello e il capitano ritornavano a casa fumando la pipa, parlando delle glorie passate, delle presenti vergogne, e dell'immensa sventura di vivere senza patria.

      All'alba il capitano era alla finestra a respirare l'aria mattutina e le soavi esalazioni dei campi. Poi passava delle ore deliziose conversando colla promessa sposa, e ammirando la perizia che dimostrava nel disimpegno delle faccende domestiche.

      L'amore e l'amicizia gli avrebbero fatto dimenticare la sua casa, e i suoi affari, se la politica non lo avesse costretto alla partenza, per apportare nel Veneto le decisioni prese dalle assemblee dei Carbonari, e provvedere con ogni sollecitudine ai prossimi avvenimenti.

      Furono presto d'accordo nel fissare il tempo delle nozze. Le donne chiesero sei mesi per apparecchiare il corredo, gli uomini assentirono volontieri, colla tacita speranza che fra sei mesi l'Italia sarebbe libera dal dominio straniero, e che per allora, la nuova famiglia italiana avrebbe una patria.

      La separazione fu dolorosa, abbracci e lagrime da ambe le parti, ma l'addio fu raddolcito dalla promessa d'una assidua corrispondenza epistolare, e dal ritorno nel novembre per celebrare le nozze.

      Il viaggiatore non distolse gli occhi da quella casa diletta che all'ultima svolta lontana della strada, e vide ancora un fazzoletto bianco che sventolava fra quel gruppo d'alberi, dove aveva lasciato il suo cuore. Rientrò all'albergo di Brianza raccontando le meraviglie vedute nelle sue gite agricole, nominò tutti i paesi, meno quello dove aveva soggiornato, e partì per Milano carico di sementi. Di là colle solite fermatine perfettamente dissimulate, e colle relative conferenze segrete coi principali centri carbonari, si diresse a piccole giornate verso il Veneto.

      Il maestro Zecchini e il fedele Mosè lo aspettavano con curiosa ansietà. Forse ritornava colla sposa! Era vero che non aveva dato alcuna disposizione in proposito, ma la casa era in ordine, e il parco era degno di ricevere qualunque signora. Mosè non voleva credere a questo precipizio, ma il maestro Zecchini non si sorprendeva di niente, anzi si aspettava ogni bizzarria da quell'originale, che gli aveva annunziato il suo matrimonio con tanto laconismo.

      Finalmente giunse una lettera che fissava il giorno preciso del ritorno, e siccome il capitano era esatto come un cronometro, così il domestico e l'amico stavano ad aspettarlo sulla porta quando si udirono i sonagli della vettura che riconduceva il pellegrino.

      Le disposizioni da prendersi per il prossimo matrimonio furono nuovo argomento di conversazioni e di diverbi fra il maestro e il capitano. Zecchini metteva fuori degli utili consigli per gli arredi, Bonifazio lo canzonava; Mosè dava sempre ragione al padrone, il quale dopo di aver ripetutamente disapprovato i piani dell'amico finiva qualche volta coll'adottare quei consigli che aveva respinti con ironia e indignazione. Ma si conchiudeva sempre la pace al tavolo del terziglio, ovvero si cambiava argomento di discussione raccogliendo le diatribe sulle carte da giuoco.

      III

      Durante l'estate venne apparecchiata la stanza nuziale, e furono acquistati tutti gli arredi necessari per abbellire la casa, e renderla degna di accogliere una donna gentile. La corrispondenza correva regolare fra gli sposi, e il capitano seguitava ad occuparsi di agricoltura, e faceva delle gite a Venezia e altrove, per completare i mobili della casa, mascherando con studiate apparenze le trame della congiura, e i ritrovi dei Carbonari.

      Non riceveva mai nessuno, e solamente in una sera di settembre, sull'imbrunire, un signore smilzo, in occhiali, si presentò al cancello della villa, e chiese del capitano. Gli fu aperto da Mosè che lo introdusse nel salotto, e corse a chiamare il padrone.

      Il capitano parve sorpreso assai di quella visita. Rimasero un'ora in conferenza; poi, fatto attaccare il cavallo, partirono insieme col legno di casa. Il padrone prendendo in mano le redini e la sferza, avvisò Mosè che non sarebbe tornato che dopo la mezzanotte, e dicesse al maestro che era andato a ricondurre un amico, venuto a fargli visita.

      Un mese dopo questo fatto, insignificante in apparenza, successero dei casi che impressionarono fortemente il Bonifazio. Il maestro capitava ogni sera colle novità del giorno: arresti di persone stimate ed illustri di Milano, e in altre parti di Lombardia, e del Polesine.

      Si parlava dovunque di società segrete scoperte, di Carbonari fuggiti o messi in prigione. Il capitano crollava le spalle, tentennava la testa, brontolava, voleva mostrarsi indifferente, ma poi domandava le più minute informazioni. Quando suonavano il campanello stava sopra pensiero fino che non sapeva chi fosse; sbagliava le carte e ne dava la causa al maestro, il quale sbalordito dall'accusa fissava tanto d'occhi in faccia del capitano, che lo rimbrottava di guardarlo in quel modo, con quello sguardo da inquisitore. E si bisticciavano più del solito.

      Il giorno dopo, il capitano si chiudeva in camera, lo si sentiva aprire degli armadi, scartabellare delle carte, nelle ore che era solito di stare in giardino.

      Quella sera, il maestro che veniva come il solito a fare la partita, fiutava l'aria della stanza, guardando intorno con inquietudine.

      – Che cosa avete, che torcete il naso? gli chiedeva il capitano.

      – Sento un odore di bruciaticcio, gli rispondeva, e guardo se c'è qualche cosa che prenda fuoco.

      – Sono delle vostre solite idee!.. io non sento niente… non c'è niente.

      – Eppure c'è qualche cosa di bruciato! insisteva l'altro, andiamo a vedere.

      Il capitano s'impazientava, montava in collera, lo accusava d'essere un visionario, lo sgridava e lo consigliava a desistere dalle sue inquietudini, e l'obbligava a sedere in quiete, colle carte in mano.

      Ma la partita era turbata dalle insistenti aspirazioni nasali del maestro, che continuava a dimenarsi sulla seggiola, e a mostrarsi pauroso del fuoco. Il capitano fremente lo tacciava d'uomo ostinato, fino alla cocciutaggine.

      Ma quando il maestro partì fece spalancare tutte le finestre e le porte, affinchè uscisse ogni odore sospetto, e volle che Mosè tirasse fuori dalla stufa delle carte bruciate incompletamente, e che le riducesse in cenere, ma persisteva nel sostenere che non ci poteva essere nessun odore da fumo.

      – Ma quel benedetto uomo, egli ripeteva, vuol mettere il suo naso da per tutto!

      Mosè, come al solito, dava ragione al padrone, e vuotando la stufa delle carte bruciate, continuava a dire che non c'era il minimo odore di fumo.

      Poi il capitano diede degli ordini precisi e segretissimi, per delle possibili contingenze. «Che il cancello del giardino sia sempre chiuso a chiave, anche di giorno, in modo che se qualche persona vi si presentasse per entrare, sia costretta ad aspettare che si vada a prender la chiave, da lui stesso tenuta in saccoccia. La porticina in fondo del brolo, che mette ai campi, sia sempre aperta di giorno e di notte.»

      Il matrimonio che doveva aver luogo in novembre fu rimandato di comune accordo a tempo più opportuno.

      C'era pericolo imminente da ogni parte. Furono prese infinite

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