La famiglia Bonifazio; racconto. Caccianiga Antonio

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La famiglia Bonifazio; racconto - Caccianiga Antonio

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di giuocare una carta si bagnava il pollice in bocca, e alla fine d'ogni partita tirava fuori la scatola di tabacco colla Madonna sul coperchio, ne offriva agli uomini, diceva le sue barzellette alla signora, e tirava su pel naso la sua presa, con una profonda aspirazione.

      Il parco diventava sempre più rigoglioso, abbellito di nuove piantagioni di alberi e di arbusti ornamentali, le macchie si arricchivano di fiori elegantissimi, l'orto aveva degli erbaggi stupendi, e il cortile sorvegliato dalla padrona di casa era popolato di numerosi pollami, d'anitre, tacchini e colombi.

      Un anno dopo le nozze un fortunato avvenimento allietò la famiglia, i parenti e gli amici, la nascita d'un figlio maschio, al quale venne imposto il nome di Gervasio. Due anni dopo ne nacque un altro, che fu chiamato Stefano; e così la famiglia cresceva, e viveva abbastanza felice, una vita tranquilla e regolare, come un paese senza storia.

      I bambini vennero allevati all'aria aperta, con una semplice vesticciuola, un cappello di paglia, e gli zoccoletti di legno: giuocavano tutto il giorno sotto i boschetti e sull'erba, e correvano incontro alla madre, colla bocca aperta, come i pulcini.

      Ebbero i primi insegnamenti dal maestro Zecchini sempre innamorato platonicamente della loro mamma, ed essa educava i loro cuori all'amore di Dio, dei genitori e del prossimo, con elevati sentimenti. Il babbo li voleva robusti e patriotti e li indirizzava per questa via. Divenuti grandicelli frequentarono le scuole di Treviso, modificate dall'insegnamento domestico. Il governo austriaco per assicurarsi dei soggetti rispettosi faceva leggere e imparare a memoria nelle scuole il libriccino intitolato I doveri dei sudditi.

      Il capitano faceva osservare ai suoi figli che la stessa natura ci ispira l'amore della patria, che la patria non può essere felice senza la libertà e la giustizia, e se non era giusto che un cittadino comandasse in casa altrui, così non poteva esser giusto che un popolo s'imponesse ad un'altra nazione. Ristabilita la vera base del diritto, dimostrava che quei pretesi doveri dei sudditinon erano altro che gli obblighi degli schiavi, ed indicava la prudenza necessaria per condursi alla scuola, eccitandoli a farsi uomini per vendicare la patria.

      E invece di limitare le loro conoscenze alle nozioni di storia imposte dal programma austriaco, spiegava ai suoi figli la storia universale, ove l'Austria faceva una figura secondaria e insignificante, e talvolta odiosa; poi li voleva istrutti minutamente sulla storia d'Italia, dalla più remota antichità fino ai nostri giorni, perchè imparassero a conoscere i grandi avvenimenti, i fatti gloriosi che onorano il nome della patria davanti al mondo, rilevando in pari tempo tutti gli errori, tutti i torti, i vizii, i delitti che conducono i popoli alla schiavitù. E si fermava con somma compiacenza a certi nomi, e spiegava le azioni generose che li avevano resi immortali.

      Li addestrava a tutti gli esercizii del corpo, alla scherma, al tiro a segno, alla ginnastica.

      – Verrà il giorno che potrete utilizzare tutte le vostre conoscenze e tutte le vostre forze, – egli diceva loro; – impiegatele sempre a favore della giustizia e della libertà, a vantaggio dei buoni contro i malvagi, – e rivolto a sua moglie soggiungeva: – Questa è la migliore congiura che possa riescire a liberarci dal governo straniero.

      E scriveva ai parenti di Brianza i progressi dell'educazione dei figli, i loro costumi intemerati, e gli animi audaci, ma onesti. È facile immaginare come egli spiegasse la storia di Napoleone, davanti i ritratti e i quadri di casa. Erano racconti che facevano venire la pelle d'oca; ma a poco a poco lo spirito bellicoso li metteva in voglia di menar le mani, sentivano vergogna di vedersi dominati dagli stranieri, e ascoltavano a bocca aperta le geste di quei generali che rotta la spada prendevano in mano un fucile e trascinavano i soldati contro la mitraglia, mettevano in fuga il nemico colla baionetta, e restavano illesi in mezzo alla mischia.

      Gervasio, secondando il gusto dominante del padre si era dato con passione all'agricoltura e al giardinaggio. Coltivava dei bei fiori, ne faceva dei mazzi magnifici, e li presentava a sua madre nei giorni delle feste natalizie ed onomastiche. Piantava degli alberi nelle occasioni solenni, come modesti monumenti della vita domestica.

      Stefano amava lo studio, leggeva molto, annotando le cose che gli parevano degne d'essere rilette.

      Il maestro Zecchini li amava come figliuoli, ringiovaniva giuocando con loro; talvolta lo canzonavano per la sua teoria, ma con maniere scherzose che non potevano offenderlo.

      – Aspettate, e mi darete ragione col tempo, – egli diceva; – siete giovani senza esperienza, e giudicate le bestie dal pelo. È un errore! bisogna che la bestia sia morta per pronunziare un giudizio esatto delle sue qualità. Ci sono degli animali di tutti i colori, ma senza la pelle tutte le bestie sono eguali.

      Giacomo Pigna aveva un figlio, Giuseppe, col quale i ragazzi andavano a caccia, ora in montagna ed ora in palude, e così si esercitavano alle marcie e al tiro, con grande soddisfazione del capitano.

      Di tratto in tratto si facevano degli inviti alla villa, per mangiare cogli amici il lepre o la selvaggina. In quelle occasioni il vecchio Pigna alzava il gomito fuor di misura, e quando era brillo ne diceva delle grosse, che facevano ridere la brigata. Allora il maestro guardava gli amici strizzando un occhio, per dimostrare che l'occasione era favorevole all'applicazione della sua teoria.

      Questa vita semplice e laboriosa, rallegrata da festicciuole di famiglia, durò parecchi anni, senza che nessun avvenimento importante venisse a turbarla. Le aspirazioni liberali crescevano nel silenzio, lo spirito nazionale era coltivato dalle letture di buoni libri, ma lo si teneva nascosto nell'intimità, come un'arma proibita. Il bisogno d'indipendenza era penetrato anche nel popolo, e le condizioni d'Europa lo favorivano. Nel giorno memorabile 22 marzo 1848, fu scosso il giogo per la prima volta, con unanime slancio, nella Lombardia e nella Venezia.

      L'insurrezione di Milano fu irresistibile, gli Austriaci dovettero ritirarsi nelle fortezze del quadrilatero; il resto del paese fu libero per quella serie di fatti complessi che fecero cadere rapidamente il dominio austriaco, con poco spargimento di sangue.

      A Venezia pochi cittadini audaci, secondati dalla popolazione, ottennero il medesimo risultato. Pareva una corrente elettrica che gettasse a terra il governo sbalordito. Ma esso raccolse l'esercito e si apparecchiò alla rivincita; mentre la nazione esaltata dalla facile vittoria, priva d'esperienza e di senno politico si abbandonava alla gioia del trionfo, e non pensava ai pericoli imminenti. Sorsero dovunque i governi provvisori, incominciarono le pacifiche dimostrazioni, i proclami ampollosi, seguiti da tutte le esitazioni della inesperienza.

      Il capitano Bonifazio era soddisfatto della caduta del governo straniero, ma desolato delle declamazioni che mantenevano il paese nelle più pericolose illusioni.

      – Armi, disciplina ed unità di comando ci vogliono, egli esclamava, non vane ciarle, e mal fondate speranze. Gli Austriaci si concentrano per organizzarsi, attenderanno dei rinforzi da Vienna, e un giorno usciranno dalle fortezze, e riprenderanno il terreno perduto. Bisogna circondarli, combatterli e vincerli. Bisogna abbandonare le questioni accademiche sulla forma di governo più opportuna all'Italia, mentre il paese è ancora occupato da un esercito agguerrito di stranieri tenaci alla preda. Bisogna ripudiare la rettorica, è inutile scrivere degli indirizzi umanitari ai fratelli Ungheresi, ai fratelli Boemi, ai fratelli Croati, i quali non domanderebbero di meglio che tornarsene a casa in santa pace, ma che la mano ferrea dell'Austria saprà conservare sotto le armi, e slanciarli alla facile riconquista d'un popolo disarmato.

      Il maestro Zecchini che era stato pronto a metter fuori del balcone la bandiera tricolore, ascoltava attentamente i discorsi del capitano Bonifazio, li trovava molto ragionevoli, si pentiva dell'entusiasmo dimostrato nei primi giorni, ed alla prima pioggia ritirò la bandiera per non sciuparla, ma dopo tornato il sole finse di dimenticarla in un angolo della casa; avrebbe voluto anche sopprimere la coccarda, ma chi non la portava era creduto una spia, ed arrischiava la pelle. Egli prese il suo partito; si mostrava taciturno coi sospetti,

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