Arrigo il savio. Barrili Anton Giulio

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Arrigo il savio - Barrili Anton Giulio

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Arrigo! – seguitò, borbottando tra i denti, ed anche a volte mandando fuori le parole, alla guisa degli uomini che son vissuti lungamente soli e pensano, come suol dirsi, ad alta voce. – Amo chi ama la donna, e più ancora chi, amandola, mostra di rispettarla. Quando ero giovane io… Ma che fai tu, Pico della Mirandola? – diss'egli, interrompendo il monologo, per rivolgersi al servitore, che s'era accostato e tendeva l'orecchio.

      – Scusi, illustrissimo, stavo a sentirla; – rispose quell'altro, col suo ossequio condito di malizia. – È così istruttivo, il suo discorso!

      – Ah sì, vorresti anche imparare la storia antica, briccone? —

      Una scampanellata all'uscio di casa mozzò le parole in bocca a Pico della Mirandola, che già stava per rispondere alla celia del Gonzaga, e fu invece costretto a correre in anticamera.

      Il vecchio riprese la sua rassegna, ma questa volta con animo mutato e intieramente propenso all'ottimismo. Ottocento mila lire! Fors'anche un milione e mezzo! Che si canzona?

      Poco stante, entrava nello studio un nuovo personaggio. Era un uomo non vecchio, nè giovane, e aveva una di quelle facce asciutte a cui dareste trenta o quarant'anni, magari venticinque, o cinquanta, tanto è difficile raccapezzarsi, tra la barba fitta di color ferrigno e la poca carne che apparisce alla vista. L'aspetto poi era severo, quasi triste; gli abiti signorili, l'aria disinvolta, il passo franco dinotavano l'amico di casa.

      – Credo che si stia vestendo, perchè è tornato dianzi dalla sua cavalcata; – gli aveva detto il servitore, pronto alle invenzioni, e senza darsi pensiero della versione più esatta che s'era creduto in obbligo di confidare allo zio del padrone. – Se vuole aspettarlo qui, c'è anche suo zio, il signor marchese Gonzaga. —

      Il nuovo venuto si avanzò con molta premura, appena ebbe udito quel nome.

      – Oh, fortunatissimo di fare la sua conoscenza, e di presentare i miei rispetti, – soggiunse. – Arrigo, da parecchi giorni, non fa che parlare di lei.

      – Ottimo cuore; – mormorò il vecchio, inchinandosi.

      – Ah sì, cuor d'oro! – rispose quell'altro. – E l'ama molto, creda; io, che passo le intere giornate con lui, ne so qualche cosa. Ed anche da tre giorni lo aspettava a Roma.

      – Sì, lo so; – rispose Gonzaga. – Il suo Happy me lo stava dicendo per l'appunto, prima che ella giungesse.

      – Ieri sera siamo andati insieme alla stazione, – incominciò il nuovo personaggio, – perchè Arrigo l'aspettava col treno serale. Ma ella non c'era, e il mio amico ne fu dolentissimo. Si figuri! Egli, per solito così calmo, era proprio fuori di sè. Ma io ora l'annoio, con questi discorsi.

      – No davvero; prosegua; mi fa anzi piacere, signor…

      – Orazio Ceprani, per obbedirla.

      – Onoratissimo! – ripigliò il Gonzaga, facendo l'inchino d'obbligo. – Mi fa piacere sentire da lei che Arrigo mi ama. Non ho più che lui, di parenti, e quando mi ha scritto che aveva bisogno di me, si figuri, mi sono augurato un bel paio d'ali. Ma il vapore non è l'elettrico. Avevo anche qualche faccenda di campagna da assestare, e mi passò la giornata.

      – Ella abita sul Reggiano?

      – Alle Carpinete, si figuri, nei dominii della contessa Matilde. Ritornato da tre mesi in Italia, ho subito trovato da comperare un podere. Un po' lontano da casa mia: ma che vuole? Laggiù a Mantova non mi conosceva più nessuno. Siamo vecchi, ecco il guaio.

      – Vecchio, poi! A cinquant'anni!..

      – Sì, bravo, mi canzoni. Cinquant'otto, signor mio, e si potrebbe dir anche cinquantanove, se in materia d'età avesse valore la massima romana: annus incoeptus pro integro habetur.

      – In verità, se non lo dicesse lei… Potrebbe anche tacerlo, e far credere ai cinquanta.

      – Non ci son dame e mi fo coraggio a confessarli tutti; – replicò allegramente il Gonzaga. – Li porto bene, non dico di no, quantunque venticinque o trenta li porterei anche meglio. Ma proprio, ritornando al nostro discorso, ma proprio, signor Ceprani, ella non poteva darmi più lieta notizia, e sono anche più contento di essermi mosso dal mio èremo. Questa Roma che ho lasciata a venticinque anni, – qui il vecchio trasse un sospiro e corrugò le ciglia, – mi pare più bella, ora che so di averci qualcheduno che mi ama. A noi, vissuti le mille miglia lontani dalla patria, invecchiati di là dai mari, in mezzo a genti barbare, come canta nel Belisario il tenore, queste cose hanno un pregio immenso, un pregio che non lo può intendere chi è sempre vissuto all'ombra dei campanili e delle torri italiane. Eccole dunque, signor Ceprani, una bella fine di mese. —

      La faccia del signor Ceprani si rabbruscò, a quel ricordo innocente del calendario.

      – Ahi, non per me! – diss'egli in cuor suo.

      – I miei ringraziamenti, adunque, e la mia amicizia; – proseguì il vecchio Gonzaga, stendendo la mano al signor Ceprani. – Già, gli amici di mio nipote debbono essere i miei. E badi che il titolo di amico io non lo dò per celia. Vengo dalle terre dei barbari, io! —

      Orazio Ceprani s'inchinò e strinse la mano del vecchio, sforzandosi di sorridere all'arguto discorso, ma non riuscendo che a fare una smorfia.

      – Ah! – disse Happy, andando verso un uscio di rimpetto a quello dell'anticamera. – Ecco il padrone. —

      Aveva sentito scricchiolare i denti di una chiave nei congegni di una certa toppa, il sapientissimo servitore.

      Orazio si mosse, per andare incontro all'amico. Cesare Gonzaga si tirò indietro; anzi, per dirvi tutto, si strinse forte, si puntellò alla spalliera della poltrona, su cui era stato dianzi seduto. Era commosso, il vecchio Gonzaga, tremava tutto, all'avvicinarsi di quel nipote che amava tanto, senza averlo ancora veduto, che aveva giudicato da principio un giovanotto carico di debiti, e che lì per lì, senz'altra preparazione, fuor quella di un discorsetto di Happy, doveva salutar milionario.

      II

      L'uscio si era aperto, la portiera alzata, ed entrava nello studio un giovane elegantemente vestito da mattina, non molto alto di statura, ma ben fatto e assai sciolto della persona, biondo, un po' pallido, dai lineamenti finissimi, dagli occhi perlati sfavillanti, sebbene per vezzo tenesse le palpebre socchiuse, e dalle labbra sottili, leggermente colorate, che sporgevano un tantino, in atto tra cortese ed ironico, come quelle di un principe, di un piccolo potente della terra, che è consapevole della propria grandezza, e vuole mostrarsi benevolo, sì, ma in un certo modo e fino ad una certa misura.

      Cesare Gonzaga non badò a queste inezie. Vide il giovanotto gentile e gli bastò di aver riconosciute le sembianze di Cecilia, della sua amata sorella. Ahimè, povera Cecilia! Cesare Gonzaga, nel 1849, abbattuto dalle sventure della patria e percosso da un altro dolore tutto suo (Ugo Foscolo li ha descritti, questi due sentimenti, associati nella persona del suo Ortis), si era allontanato, non che da Roma, dai confini della penisola. A Mantova, intanto, sotto il dominio dell'Austria, dopo la parte ch'egli aveva presa nelle cospirazioni e nelle guerre recenti, non poteva tornare; perciò, dopo la caduta di Roma, e dopo aver seguito il generale Garibaldi nella sua marcia memorabile in mezzo a tante forze nemiche, disperando oramai delle sorti italiane, si era rifugiato in Grecia, donde, proseguendo la sua triste odissèa di fuoruscito, era andato a cercare, non già la fortuna, ma la pace del cuore, sui lidi estremi dell'Oriente. Solo alcuni anni dopo la sua partenza, Cecilia Gonzaga era andata sposa alla Mirandola; e colà era vissuta nella

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