Arrigo il savio. Barrili Anton Giulio
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Pensate ai dolori che lo avevano mandato esule volontario della patria, e indovinerete la cagione di quella ripugnanza di Cesare. Arrigo, dal canto suo, doveva pur sapere, per lettere dei Mirandolesi, che uno zio, il suo unico zio materno, gli era ritornato dal centro dell'India; ma sul principio pareva non averne fatto caso, lasciando che quello zio, triste della solitudine che il tempo e l'assenza avevano fatto intorno a lui, andasse a rinchiudersi, rovina d'uomo, tra i monti del Reggiano, daccanto alla rovina di un antico castello della contessa Matilde. Da tre mesi era il Gonzaga in Italia, da due spartiva il suo tempo tra Reggio e la tenuta delle Carpinete, dove il freddo era rigido e dove bisognava portare quasi tutto il necessario per allogarsi decentemente, allorquando giunse la lettera di Arrigo. Era in singolar modo affettuosa, chiedeva notizie, accennava al desiderio, che quel povero giovanotto, rimasto solo della sua casa, aveva vivissimo nel cuore di vedere il fratello di sua madre; e non pure accennava al desiderio, ma all'urgente bisogno.
Il figlio di Cecilia scriveva; e Cesare Gonzaga, a mala pena collocato nella sua tenuta, dove faceva conto di morire tra le sue memorie e con gli occhi alla santa natura, amica e consolatrice di chi ha molto sofferto, Cesare Gonzaga, dico, si era spiccato dal suo nido per andare dal nipote, vincendo la ripugnanza che lo teneva lontano da Roma, dalla eterna città che egli non aveva più veduta dopo l'eroica difesa del Vascello, dopo la dolorosa morte di tanti compagni d'armi, e la vergogna, più dolorosa a gran pezza, di nuovi stranieri entro le mura di Camillo. Ed era là, il tardo reduce, era là, in quello studio, appoggiato a quella poltrona, col cuore trepidante e gli occhi gonfi di lagrime, davanti al giovanotto sorridente, che nei lineamenti gentili del viso e più nei vividi occhi perlati gli ricordava la sua povera e cara sorella. Come si sentiva destinato ad amarlo! Come disposto a sacrificargli tutto sè stesso! E frattanto, quel biondo ragazzo che gli aveva scritto con tanta premura: “Venite, ho gran bisogno di voi„ era un milionario, in apparenza, e, secondo l'opinione dei più, anche nella sostanza, un felice. Ma allora, che bisogno aveva Arrigo di lui? Certo era il bisogno di un parente, di un amico vero, di un consolatore. Si è tanto poveri, quando si è soli!
Orazio Ceprani si era fatto avanti, per stringere la mano di Arrigo.
– Veramente, – diss'egli, – non dovrei essere io il primo, quest'oggi. Eccoti lo zio tanto aspettato. —
Arrigo Valenti si volse a guardare verso il fondo della camera, e un lampo di gioia gli balenò dagli occhi, che, manco male, aveva finalmente aperti e spalancati. Guardò un istante quel vecchio alto e severo, che si faceva forza per vincere la sua commozione, e gli andò incontro col sorriso sulle labbra.
– Zio, come ti son grato! – esclamò quindi, cadendogli nelle braccia.
Quell'altro non seppe più reggere alla piena degli affetti, e diede in uno scoppio di pianto.
– Come son sciocco, non è vero? – diss'egli, con voce rotta dai singhiozzi. – Per un soldato, è veramente troppo. Ma vedi, ragazzo mio, tu somigli a tua madre… come una stella somiglia ad un'altra. Lasciati abbracciare, Arrigo! Lasciami piangere! Sono i baci e le lagrime che non ha avuto tua madre. —
E lo abbracciava ancora, e lo guardava e piangeva. Arrigo lasciava fare e sorrideva, anch'egli intenerito da quella semplice e quasi epica dimostrazione di affetto.
Finalmente, chetato un poco quell'ardore di abbracci, Arrigo provò di avviare il discorso.
– Zio, – diss'egli, – che cosa avrai pensato di me, che ho fatto tanto a fidanza col tuo buon cuore? Senza esser neanche conosciuto da te, ho ardito pregarti…
– Che! che! – interruppe il Gonzaga. – Era naturale. C'era forse bisogno di conoscerti, per accorrere alla tua chiamata? Infine, eccomi qua.
– Era di Cesare il venire, come il vedere ed il vincere; – osservò modestamente Orazio Ceprani.
Arrigo ricordò allora il suo debito di padrone di casa.
– Permetti, – incominciò, – che io ti presenti il nostro Orazio Ceprani, uomo di borsa, e di cappa e di spada, poichè è sopratutto un compitissimo cavaliere.
– Ah, ci conosciamo da mezz'ora; – rispose il Gonzaga. – Ed io l'ho già per amico, perchè egli mi ha detto un gran bene di te, mentre stavamo aspettandoti.
– Perdonami, zio! Avevo un colloquio d'affari… Non ti aspettavo, con la corsa del mattino. Ier sera non eri giunto…
– Che vuoi? Appena ricevuta la tua lettera avrei fatto le valigie; – rispose il Gonzaga. – Ma avevo anche un mondo di piccole faccende da sbrigare laggiù. Speravo, veramente, di averti alle Carpinete; ma già, con quel freddo!
– Oh, zio, il freddo mi avrebbe dato poca noia. Pensa piuttosto che mi era impossibile di muovermi.
– Te lo credo, ora; ma laggiù, vedi, mi pareva che tu avresti dovuto correre. Basta, non ne parliamo più a lungo. Ho fatto il miracolo di Maometto. La montagna non volle venire a me; io venni alla montagna.
– Come si fa? – disse Arrigo, sospirando. – Tu eri anche il più libero dei due. Per ciò sei venuto… e perciò rimarrai.
– Non correr tanto! Vedremo, penseremo. Tu per ora fa i fatti tuoi. Avrai forse da parlare col signor Ceprani. —
Il Ceprani, tirato in mezzo, cominciò con accento perplesso:
– Sì, ero venuto da te. Arrigo… Ma ora che c'è tuo zio…
– Non badi a me; – interruppe il vecchio. – Io mi ritiro in buon ordine. —
Orazio Ceprani era lì per lasciarlo andare; ma tosto cambiò di proposito. Per quello che aveva da dire e da ottenere, la presenza di un terzo non doveva guastare; che anzi!
– No, finalmente, perchè? – diss'egli, trattenendo il Gonzaga col gesto. – Con lei si può parlare. Arrigo, – proseguì, rivolgendosi all'amico, – ero venuto a chiederti un servizio. Oggi dovrei ritirare quelle duecento Ausonie…
– E ci perdi ottomila lire; – notò Arrigo Valenti. – Te lo avevo pur detto!
– Che vuoi? Promettevano così bene! Il Governo doveva assumere egli, da un momento all'altro… Insomma, che farci? Tu hai veduto più lontano e più giusto di me. Io