Arrigo il savio. Barrili Anton Giulio

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Arrigo il savio - Barrili Anton Giulio

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anzi. Ti sei accorto un giorno di avere sprecata la tua giovinezza e le tue sostanze in parecchie follìe…

      – Tra le quali un paio di guerre per l'indipendenza del mio paese; ti prego di metterle in conto; – interruppe il Gonzaga.

      – Ci venivo dopo, – replicò Arrigo prontamente, – e volevo anche aggiungere una pena di cuore…

      – Lascia stare, non frugar nelle ceneri! – gridò il vecchio, turbato.

      – Perdonami, zio; me ne aveva fatto cenno mia madre. Infine, ecco qua: io, ammaestrato dagli esempi della tua prima giovinezza e non avendo più nobili follìe da commettere, poichè ho avuta la… disgrazia di nascere troppo tardi, incomincio da dove tu hai cangiato sentiero. So bene quel che vuoi dirmi; le gaie spensieratezze, il vivere conforme alla propria età, l'aspettare la fortuna, facendo versi cattivi e abbaiando alla luna! Il secolo invecchia, caro zio, e non vuol più saperne, di questi perditempi. “Essere o non essere, ecco il punto.„ Vedi? Se tu non ami la prosa, questa è poesia, e di un sommo. Il mondo è di chi se lo piglia; e perchè lo lascerei afferrare da tanti, mentre anch'io sento di avere una mano, che può far servizio come quella degli altri? Ogni cosa a suo tempo, lo capisco; ma chi ha tempo non aspetti tempo. Fare e far subito: e poichè il denaro è il nerbo della guerra, pensiamo al denaro. C'erano degli uomini, sai, i quali si credevano ogni cosa al mondo, solo perchè avevano il denaro, e, mentre gli altri guardavano fidenti all'orizzonte lontano, essi vogavano sodo, alla galeotta, tirando bravamente a sè. Anch'io ho imparato il loro giuoco, e c'est pas plus malin que ça. Non sono io un savio ragazzo? Credevi di dover venire a frenarmi, fors'anche a trattenermi sull'orlo del precipizio, ed ecco, tu trovi invece che io vado di buon passo per la strada maestra. Non avrai che a lodarmi, zio, e mi favorirai più volentieri in ciò che io sono per chiederti. Perchè, vedi, di te ho bisogno davvero; non mi vergogno di ricorrere a te, e sarò lieto di chiamarmi tuo debitore. —

      Il discorso era stato brutto, o almeno poco simpatico; ma la chiusa era molto migliore.

      – C'è ancora qualche cosa, lì dentro; – pensò lo zio Cesare, che già aveva incominciato a scandalizzarsi, fiutando l'egoista.

      E rifacendosi la bocca in quella chiusa più garbata, rispose:

      – Sì, per l'appunto, che cosa volevi da me? Se non ti occorrono consigli di saviezza e non hai bisogno ch'io paghi i tuoi debiti, in che altro può esserti utile uno zio? fammi il piacere di dirmelo.

      – Ecco, in poche parole ti spiego ogni cosa; – replicò il giovinotto.

      Ma proprio in quel punto, un'altra scampanellata all'uscio di casa ruppe il filo del discorso di Arrigo.

      – Diamine! – esclamò lo zio Cesare. – Ecco un altro importuno.

      La maliziosa figura di Happy comparve poco stante sul limitare.

      – Il signor conte Morati di Castelbianco; – disse il servitore, tirandosi da un lato.

      Arrigo si era prontamente alzato.

      – Perdonami, zio; – diss'egli inquieto; – proseguiremo il nostro discorso più tardi.

      – O lo incominceremo; – commentò lo zio; – perchè finora non mi avevi detto nulla. —

      III

      Il nuovo venuto era un signore smilzo, dalla faccia scarna e dalla pelle risecchita, che pareva di cartapecora; ma aveva i capelli e i baffi neri morati, veramente degni del suo cognome. Gli occhi erano grigi, e non dovevano vederci molto, perchè il conte, abbassando la testa con un atto che pareva di consuetudine, e che lo aiutava a nascondere nella cravatta le grinze del collo, si piantava, entrando nello studio di Arrigo Valenti, una lente cerchiata d'oro nella cavità dell'occhiaia destra. Era vestito all'ultima moda, d'un soprabito nero con le rivolte di seta, la cravatta di colore, permessa soltanto di mattina ai moderni cavalieri, i calzoni grigi, di stoffa e disegno autenticamente inglesi, e finalmente un pastrano corto di panno chiaro, tra il verde oliva e il lionato.

      Arrigo gli era andato incontro con molta premura.

      – Conte, – diss'egli, – che fortuna è questa per me!

      – Caro Valenti, – rispose quell'altro, con una vocina di chioccia infreddata e smozzicando l'erre, – dite il piacere di venire a vedervi. Ci trascurate un pochino, sapete? Speravo di vedervi a cavallo, quest'oggi, ma voi vi siete rintanato in casa, mio bel tenebroso! Perciò sono venuto a scovarvi, e devo a questa amichevole risoluzione la vista di un piedino meraviglioso. Finora, in parola d'onore, di piedini così belli non ne avevo veduto che in casa mia.

      – Che dite mai, conte? – esclamò Arrigo, sconcertato dal paragone.

      – Sì, proprio; – continuò il Ganimede; – se non avessi veduto che il piedino, avrei giurato che fosse quello di mia moglie. Ma la dama che ho veduta qui presso, in via Sallustiana, era vestita di color marrone. Ora la contessa odia i marroni; non può soffrire neanche il colore. —

      Cesare Gonzaga osservò che suo nipote era sulle spine. Via Sallustiana, la scala di là, il colloquio d'affari, gli si affacciarono alla mente collegati per un filo arcano alla dama del piedino maraviglioso.

      – Conte, – diceva frattanto Arrigo, per rompere quel discorso così poco piacevole, – permettete che vi presenti mio zio, giunto a Roma stamane.

      – Ah, l'aspettato, il desiderato marchese Gonzaga? Fortunatissimo di conoscerla! – disse il conte Morati.

      – Sì conte; – rispose il vecchio inchinandosi. – Cesare Gonzaga, per obbedirla, ma senza il titolo che la sua bontà mi attribuisce.

      – Zio, ci hai diritto; – entrò a dire Arrigo, che non poteva mandar giù quella rinunzia alla corona marchionale. – Sei l'ultimo dei Gonzaga di Luzzara, e questi sono sempre stati marchesi. In casa tua c'era anche l'albero genealogico.

      – Ah, l'albero! – rispose il vecchio ridendo. – Sì, c'era, in casa; ma il giorno che non diede più frutto, mano alla scure, e ziffe! Ho bruciato l'albero, signor conte, e mi son rifatto modestamente dal ceppo.

      – Ella è molto ricco, da quanto mi ha detto Arrigo; – notò il conte Morati. – È un'altra bella cosa. Io, per dirle la verità, vado allegramente in rovina. —

      E sedette, il vecchio Ganimede, facendosi una spagnoletta.

      – Diamine! – pensò Cesare Gonzaga. – Debbo io tirar fuori il portafogli, o tenerlo ben chiuso in tasca?

      – Ma intendiamoci, – proseguiva il conte, scherzando con le parole come le sua dita scherzavano con la carta velina, – adagino, senza fretta. Non ho figli, nè conto di averne per ora. E mi verrà forse il desiderio, più tardi? Io già non li amo, i ragazzi. Quando sarò più avanti con gli anni, chi lo sa? Basta, mio caro Valenti, – soggiunse il conte, accostando la spagnoletta alla fiamma della candela, che Arrigo gli aveva premurosamente accesa, – ho veduto, venendo da voi, il più bel piede d'Italia. E poco dopo, davanti al vostro portone, i due più bei cavalli d'Inghilterra. Vengono, nientedimeno, dalle scuderie del duca di Blackborne. Li possiede il Meissner, che se ne va da Roma e vuol venderli. Che stupendi animali! Il piedino mi è sfuggito, perchè entrava allora in un brumme, che andò via di galoppo; ma i cavalli, perbacco, non dovrebbero sfuggirmi. Appena uscito da voi, passo dal mio ministro delle finanze, e se ha danari in cassa, mi slancio a conquistar la pariglia.

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