Il Comento alla Divina Commedia, e gli altri scritti intorno a Dante, vol. 2. Giovanni Boccaccio

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Il Comento alla Divina Commedia, e gli altri scritti intorno a Dante, vol. 2 - Giovanni Boccaccio

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in Roma, ed avendo triunfato, occupò la republica, e fecesi fare, contro alle leggi romane, dittatore perpetuo, dove, secondo le leggi, non si poteva piú oltre che sei mesi stendere lʼuficio del dettatore. Ed appartenendo allʼautoritá del senato il conceder lʼuso della laurea, da esso ottenne di poterla portare continuo, accioché con quella ricoprisse la testa sua calva; la quale lungamente a suo potere avea ricoperta col tirarsi i capelli didietro dinanzi. Ed in questa dignitá perseverando, ed essendo a molti deʼ senatori gravissimo, intanto che gran parte del senato avea contro a lui congiurato, si riscaldò nel disiderio, lungamente portato, dʼesser re; per la qual cosa, essendosi a vendicare la morte di Crasso, stato con piú legioni romane ucciso daʼ parti, ferocissimi popoli, subornò Lucio Cotta, al quale con quattordici altri uomini apparteneva il procurare i libri sibillini, di quello che voleva rapportasse; e Cotta poi in senato disse neʼ libri sibillini trovarsi: «li parti non poter esser vinti né soggiogati, se non da re»; e però convenirsi che Cesare si facesse re. La qual cosa parve gravissima aʼ senatori ad udire. E, come che essi servassero occulta la loro intenzione, fu nondimeno questo un avacciare a dare opera a quello che parte di loro aveano fra sé ragionato: e perciò glʼidi di marzo, cioè dí quindici di marzo, Giulio Cesare, sollecitato molto da Bruto, non potendolo Calfurnia, sua moglie, per un sogno da lei veduto la notte precedente, ritenere, né ancora alcuni altri segni da lui veduti, pretendenti quello che poi seguí, in su la quinta ora del dí, uscito di casa, ne venne nella corte di Pompeo, dove quel dí era ragunato il senato: dove, non dopo lunga dimora, fu da Gaio Cassio e da Marco Bruto e da Decio Bruto, principi della congiurazione, e da piú altri senatori, assalito e fedito di ventitré punte di stili. La qual cosa vedendo esso, e conoscendo la morte sua, recatisi e compostisi, come meglio poté, i panni dinanzi, accioché disonestamente non cadesse, senza far alcun romore di voce o di pianto cadde. Ed essendone stato portato da alquanti suoi servi a casa, e vedute da Antistio medico le piaghe di lui ancora spirante, disse di tutte quelle una sola esservene mortale: e quella si crede fosse quella che da Marco Bruto ricevette. Appresso, fuggitisi i congiurati, ed egli essendo morto, disfatte le sedie giudiciali della corte, le quali si chiamavano «rostri», gliene fu fatto, secondo lʼantico costume, un rogo, e con grandissimo onore fu il corpo suo arso; e le ceneri, raccolte diligentemente, furon messe in quel vaso ritondo di bronzo, il quale ancora si vede sopra quella pietra quadrangula acuta ed alta, che è oggi dietro alla chiesa di San Piero in Roma, la quale il vulgo chiama «Aguglia», come che il suo vero nome sia «Giulia».

      «Con gli occhi grifagni». Non mi ricorda aver letta la qualitá degli occhi di Giulio Cesare; ma, percioché gli occhi grifagni, se da «grifone» vien questo nome, sono riposti nella fronte sotto ciglia aguzzate, e piccoli per rispetto agli altri, e per questo hanno a significare astuzia e fierezza dʼanimo dovere essere in colui che gli ha; e queste cose furono in Cesare: e però credere dobbiamo lʼautore, o colui da cui lʼebbe, dovere o dire il vero, o estimare dagli effetti veri Cesare dovergli cosí avere avuti fatti ragionevolmente.

      «Vidi Cammilla». Chi costei fosse distesamente è scritto sopra il primo canto del presente libro; e però qui non bisogna di replicare. Ponla nondimeno qui lʼautore per la sua virginitá e per la sua costante perseveranza in quella, e, oltre a ciò, per lo suo virile animo, per lo quale non femminilmente, ma virilmente adoperò e morí.

      «E la Pantasilea». La Pantasilea fu reina dellʼamazzone, cioè di quelle donne, le quali, senza volere o compagnia o signoria dʼuomini, per se medesime in Asia, allato al Mar maggiore, sotto piú reine lungo tempo signoreggiarono parte dʼAsia e talora dʼEuropa. La origine delle quali fu questa, secondo che Giustino, abbreviatore di Trogo Pompeo, scrive nel libro terzo della sua Storia. Essendo cacciati di Scizia, quasi neʼ tempi di Nino, re dʼAssiria, Silisio e Scolopico, giovani di reale schiatta, per divisione la quale era traʼ nobili uomini di Scizia, grandissima quantitá di giovani scizi avendone seco menata insieme con le lor mogli eʼ figliuoli, nelle contrade di Cappadocia, allato ad un fiume chiamato Termodonte si posero; e quivi occupati i campi chiamati Cirii, usati per molti anni di vivere di ratto, e per questo rubare e spogliare ed infestare i vicini popoli da torno: avvenne che, per occulto trattato deʼ popoli, noiati da loro, essi furon quasi tutti uccisi. Le mogli deʼ quali, veggendo essere aggiunto al loro esilio lʼesser private deʼ mariti, preson lʼarmi, e con fiero animo andarono incontro a coloro che li loro mariti uccisi aveano, e quegli cacciarono fuori del loro terreno: e, oltre a ciò, continuando la guerra animosamente per alcun tempo, da ogni nemico il difesero. Poi, congiugnendosi per matrimonio coʼ popoli circustanti, posero giú alquanto la ferocitá dellʼanimo: ma poi ripresala, e intra sé ragionando, estimarono il maritarsi a coloro, aʼ quali si maritavano, non esser matrimonio, ma piú tosto un sottomettersi a servitudine. Per la qual cosa deliberarono di fare, e fecero, cosa mai piú non udita: e questa fu, che tutti quegli uomini, li quali con loro erano a casa rimasi, uccisono, e, quasi risurgendo vendicatrici delle morti degli uccisi loro mariti, nella morte degli altri da torno tutte dʼuno animo cospirarono. E per forza dʼarme, con quegli che rimasi erano, avuta pace, accioché per non aver figliuoli non perisse la lor gente, presero questo modo, che a parte a parte andavano a giacere coʼ vicini uomini, e come gravide si sentivano, si tornavano a casa; e quegli figliuoli maschi che elle facevano, tutti gli uccidevano, e le femmine guardavano e con diligenza allevavano. Le quali non a stare oziose, o a filare o a cucire, né ad alcuno altro femminile uficio adusavano, ma in domare cavalli, in cacce, in saettare ed in fatica continua lʼesercitavano. E, accioché esse potessero nutricare quelle figliuole che di loro nascessero, essendo loro le poppe agli esercizi delle armi noiose, lasciavano loro la destra, e della sinistra le privavano: ed il modo era, che quando eran piccole, tirata alquanto la carne in alto, quella con alcun filo strettissimamente legavano: di che seguiva che la parte legata, non potendo avere lo scorso del sangue, si secava, e cosí poi, venendo in piú matura etá, non vʼingrossava la poppa. E da questa privazione dellʼuna delle poppe nacque loro il nome, per lo quale poi chiamate furono, cioè «Amazzone», il qual tanto vuol dire, quanto «senza poppa». E, cosí perseverando piú tempo, quando sotto una reina e quando sotto due si governavano, continuamente ampliando il loro imperio. E, essendo in processo di tempo morta una loro reina, la quale fu chiamata Orizia, fu fatta reina la Pantasilea. Costei fu valorosa donna e governò bene il suo regno. Ed avendo udito il valor di Ettore, figliuolo del re Priamo, disiderò dʼaver alcuna figliuola di lui, e, per accattare lʼamore e la benivolenza sua, con gran moltitudine delle sue femmine, contro aʼ greci venne in aiuto deʼ troiani. Ma non poté quello, che desiderava, adempiere, percioché trovò, quando giunse, Ettore essere giá morto; ma nondimeno mirabilmente piú volte per la salute di Troia combatté; alfine combattendo fu uccisa. E, secondo che alcuni scrivono, costei fu che prima trovò la scure: vero è che quella, che da lei fu trovata, aveva due tagli, dove le nostre nʼhanno un solo.

      «Dallʼaltra parte», forse a rincontro aʼ nominati, «vidi il re Latino». Latino fu re deʼ laurenti e figliuolo di Fauno re, deʼ discendenti di Saturno, e dʼuna ninfa laurente, chiamata Marica, sí come Virgilio nellʼEneida dice:

      …Rex arva Latinus et urbes

      iam senior longa placidas in pace regebat.

      Hunc Fauno et nympha genitum laurente Marica

      accepimus.

      Ma Giustino non dice cosí, anzi dice che egli fu nepote di Fauno, cioè figliuolo della figliuola, in questa forma: che, tornando Ercule di Spagna, avendo vinto Gerione, e pervenendo nella contrada di Fauno, egli giacque con la figliuola, e di quello congiugnimento nacque Latino. E cosí non di Fauno, ma dʼErcule sarebbe Latino stato figliuolo. Ma Servio Sopra Virgilio dice che, secondo Esiodo, in quello libro il quale egli compose chiamato Aspidopia, che Latino fu figliuolo dʼUlisse e di Circe, la quale alcuni chiamaron Marica; e però dice il detto Servio, Virgilio aver detto di lui, cioè di Latino, «Solis avi specimen», percioché Circe fu figliuola del Sole. Ma dice il detto Servio (percioché la ragione deʼ tempi non procede, percioché Latino era giá vecchio, quando Ulisse ebbe la dimestichezza di Circe) essere da prendere quello che Iginio dice, cioè essere stati piú Latini. Oltre a questo, cosí come del padre di Latino sono opinioni varie, cosí similmente sono gli antichi scrittori discordanti della madre: percioché Servio dice Marica essere dea del lito deʼ minturnesi, allato al fiume chiamato Liri: laonde Orazio dice:

      …et

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