Il Comento alla Divina Commedia, e gli altri scritti intorno a Dante, vol. 2. Giovanni Boccaccio

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Il Comento alla Divina Commedia, e gli altri scritti intorno a Dante, vol. 2 - Giovanni Boccaccio

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però, se noi vorrem dire Marica essere stata moglie di Fauno, non procederá; percioché glʼiddii locali, secondo lʼerronea opinion degli antichi, non trapassano ad altre regioni. Alcuni dicono Marica esser Venere, percioché ella ebbe un tempio allato alla Marica, nel quale era scritto «Pontina Venere»; ma di costei anche si può dire quello che di sopra dicemmo di Latino, potere essere state piú Mariche. Ma di cui che egli si fosse figliuolo, egli fu re deʼ laurenti, neʼ tempi che Troia fu disfatta, ed ebbe per moglie Amata, sirocchia di Dauno, re dʼArdea e zia di Turno, sí come per Virgilio appare. Ma Varrone, in quel libro il quale egli scrive De origine linguae latinae, dice che Pallanzia, figliuola dʼEvandro re, fu sua moglie. Costui, secondo che vogliono alcuni, ricevette Enea fuggito da Troia, ed avendo avuto un responso da quegli loro iddii, che egli ad un forestiere, del quale dovea mirabile succession nascere, désse Lavina sua figliuola per moglie; avendola giá promessa a Turno, la diede ad Enea: di che gran guerra nacque, nella quale, secondo che dice Servio, questo Latino morí quasi nella prima battaglia.

      «Che con Lavina, sua figlia, sedea». Lavina, come detto è, fu figliuola di Latino e dʼAmata e moglie dʼEnea, del quale ella rimase gravida; e temendo la superbia di Ascanio figliuolo di Enea, il quale era rimaso vincitore della guerra di Turno, si fuggí in una selva; e appo un pastore, secondo che dice Servio, chiamato Tiro, dimorò nascosamente: e partorí al tempo debito un figliuolo, il quale nominò Giulio Silvio Postumo, percioché nato era, dopo la morte del padre, nella selva. Ma poi fu costei da Ascanio rivocata nel suo regno, avendo egli giá fatta la cittá di Alba ed in quella andatosene. La quale non essendo dalle cose avverse rotta, tanto reale animo servò nel petto femminile, che senza alcuna diminuzione guardò il regno al figliuolo, tanto che egli fu in etá da sapere e da potere regnare. Ma Eusebio in libro Temporum dice che costei dopo la morte dʼEnea si rimaritò ad uno il quale ebbe nome Melampo, e di lui concepette un figliuolo, il quale fu chiamato Latino Silvio: né piú di lei mi ricorda aver trovato.

      «Vidi quel Bruto, che cacciò Tarquino». Bruto fu per legnaggio nobile uomo di Roma, percioché egli fu dʼuna famiglia chiamata i Giuni, ed il suo nome fu Caio Giunio Bruto, e la madre di lui fu sorella di Tarquino Superbo, re deʼ romani. E percioché egli vedeva Tarquino incrudelire contro aʼ congiunti, temendo di sé, avendo sana mente, si mostrò pazzo: e cosí visse buona pezza, portando vilissimi vestimenti, e ingegnandosi di fare alcune cose piacevoli, come talvolta fanno i matti, accioché facesse ridere altrui, ed ancora per acquistare la benivolenza di chi il vedesse, e con questo fuggisse la crudeltá del zio. E percioché poco nettamente vivea, fu cognominato Bruto: il quale, per aver festa di lui, tenevano volentieri appresso di sé i figliuoli di Tarquino. Ora avvenne che, essendo Tarquino Superbo intorno ad Ardea ad assedio, e i figliuoli del re con altri lor compagni avendo cenato, entrarono in ragionamento delle lor mogli, e ciascuno, come far si suole, in virtú e in costumi preponeva la sua a tutte lʼaltre femmine; e, non finendosi la quistione per parole, presero per partito dʼandarne alle lor case con questi patti: che quale delle lor donne trovassero in piú laudevole esercizio, quella fosse meritamente da commendar piú che alcunʼaltra; e cosí, montati a cavallo, subitamente fecero. E pervenuti a Roma, trovarono le nuore del re ballare e far festa con le lor vicine, non ostante che i lor mariti fossero in fatti dʼarme e a campo; e di quindi nʼandarono a un castello chiamato Collazio, dove un giovane chiamato Collatino, loro zio, teneva la donna sua, chiamata Lucrezia, e trovarono costei in mezzo delle sue femmine vegghiare, e con loro insieme filare e far quello che a buona donna e valente sʼapparteneva di fare: per che fu reputato che costei fosse piú da lodare che alcuna dellʼaltre e che Collatino avesse miglior moglie che alcun degli altri. Era tra questi giovani Sesto Tarquino, giovane scellerato e lascivo, il quale, veduta Lucrezia e seco medesimo commendatala molto, entratagli nellʼanima la bellezza e lʼonestá di lei, seco medesimo dispuose di voler del tutto giacer con lei: e dopo alquanti dí, senza farne sentire alcuna cosa ad alcuno, preso tempo, solo ritornò a Collazio, dove da lei parentevolmente ricevuto ed onorato, considerato la condizione della casa, la notte, come silenzio sentí per tutto, estimando che tutti dormissero, levatosi, col coltello ignudo in mano, tacitamente nʼandò lá dove Lucrezia dormiva, e postale la mano in sul petto, disse: – Io sono Sesto, e tengo in mano il coltello ignudo; se tu farai motto alcuno, pensa chʼio tʼucciderò di presente. – Ma per questo non tacendo Lucrezia, la quale in guisa alcuna al suo desiderio acconsentir non voleva, le disse: – Se tu non farai il piacer mio, io tʼucciderò, e appresso di te ucciderò uno deʼ tuoi servi, e a tutti dirò che io tʼabbia uccisa, percioché col tuo servo in adulterio tʼabbia trovata. – Queste parole spaventarono la donna, seco pensando che, se in tal guisa uccisa fosse trovata, leggermente creduto sarebbe lei essere stata adultera, né sarebbe chi la sua innocenza difendesse: e però, quantunque malvolentieri si consentisse a Sesto, nondimeno, avendo pensato come cotal peccato purgherebbe, gli si consentí.

      Sesto, quando tempo gli parve, se ne tornò ad Ardea; ed essa piena di dolore e dʼamaritudine, come il giorno apparí, si fece chiamare Lucrezio Tricipitino, suo padre, e Collatino, suo marito, e Bruto: li quali essendo venuti, e trovandola cosí dolorosa nellʼaspetto, la domandò Collatino: – Che è questo, Lucrezia? non sono assai salve le cose nostre? – A cui Lucrezia rispose: – Che salvezza può esser nella donna, la cui pudicizia è violata? nel tuo letto è orma dʼaltro uomo che di te. – E quinci aperse distesamente ciò che per Sesto Tarquino era stato la passata notte adoperato. Il che udendo Collatino e gli altri, quantunque dellʼaccidente forte turbati fossero, nondimeno la cominciarono a confortare, dicendo la pudicizia non potere esser contaminata, dove la mente a ciò non avesse consentito. Ma Lucrezia, ferma nel suo proposito, trattosi di sotto aʼ vestimenti un coltello, disse: – Questa colpa, in quanto a me appartiene, non trapasserá impunita; né alcuna mai sará, che per esempio di Lucrezia diventi impudica. – E detto questo, e posto il petto sopra la punta del coltello, su vi si lasciò cadere, e cosí senza poter essere atata, entratole il coltello nel petto, si morí. Tricipitino e Bruto e Collatino, vedendo questo, non potendo piú nascondere lʼindegnitá del fatto, ne portarono il corpo morto nella piazza, predicando lʼiniquitá di Sesto Tarquino, e di molte ingiurie accusando il re eʼ figliuoli. Il pianto fu grande, e il rammarichio per tutto: ma Bruto, estimando che tempo fosse a por giuso la simulata pazzia, tratto il coltello del petto alla morta Lucrezia, con una gran brigata deʼ collazi nʼandò a Roma, lasciando che lʼun deʼ due rimasi andassero nel campo a nunziare questa iniquitá: e in Roma pervenuto, per dovunque egli andava, piangendo e dolendosi, convocava la moltitudine a compassione dellʼinnocente donna e ad odio deʼ Tarquini. Per la qual cosa furono incontanente le porte di Roma serrate, e per tutto gridata la morte e il disfacimento del re e deʼ figliuoli: e il simile era avvenuto nel campo ad Ardea. E come fu sentita la scellerata operazione di Sesto Tarquino, e tutti, lasciato il re eʼ figliuoli, a Roma venutisene, e ricevuti dentro, in una medesima volontá con gli altri divenuti, al re Tarquino, che minacciando tornava da Ardea, del tutto negarono il ritornare in Roma: e subitamente in luogo del re fecero due consoli, appo i quali fosse la dignitá e la signoria del re, sí veramente che piú dʼuno anno durar non dovesse: e di questi due primi consoli fu lʼuno Bruto e lʼaltro Collatino. E, sentendo, in processo di tempo, Bruto due suoi figliuoli tenere alcun trattato di dovere rimettere il re eʼ figliuoli suoi a Roma, fattigli spogliare e legare ad un palo, prima agramente batter gli fece con verghe di ferro, e poi in sua presenza ferire con la scure e cosí morire. Cotanto adunque mostrò essergli cara la libertá racquistata. Ma poi, avendo Tarquino invano tentato di ritornare per trattato in Roma, ragunata da una parte e dʼaltra gente dʼarme, ad assediare Roma venne. Incontro al quale uscirono col popolo di Roma armati i consoli; ed essendosi traʼ due eserciti cominciata la battaglia, avvenne che Arruns, lʼuno deʼ figliuoli di Tarquino, combattendo, vide Bruto; per che, lasciata la battaglia degli altri, gridò: – Questi è colui che mʼha del regno cacciato; – e drizzato il cavallo e la lancia verso lui, e punto degli sproni il cavallo, quanto correr potea piú forte nʼandò verso lui. Il quale veggendo Bruto venire, e conosciutolo, non schifò punto il colpo, ma verso lui dirizzatosi con la lancia e col cavallo, avvenne che con tanto odio delle punte delle lance si ferirono, che amenduni morti caddero del cavallo. E poi, avendo i romani avuta vittoria deʼ nemici, con grandissimo pianto ne recarono in Roma il corpo di Bruto, lá dove egli da tutte le donne di Roma, sí come padre e ricuperatore della loro libertá e vendicatore e guidatore della loro pudicizia, fu amarissimamente pianto,

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