Le Indagini Di Giovanni Marco Cittadino Romano. Guido Pagliarino
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Il centurione, avuti glâindirizzi del commerciante e dellâalbergatore, aveva ordinato a Gaio Tullio di prendere una guardia con sé e accompagnare il levita alle residenze dei due testimoni, per un confronto.
Il grossista aveva testimoniato che quel suo cliente era stato da lui fin al tramonto, lâalbergatore che Barnaba era arrivato alla locanda a sole appena calato, col cielo non ancor del tutto buio, e che il giorno prima lâuomo e il defunto sâerano presentati come parenti nel prendere stanza.
Ascoltato il rapporto di Gaio Tullio, il comandante aveva concesso allâaccertato nipote di ritirare, alle prime luci, la salma dello zio. Sùbito gliene aveva consegnato la borsa, contenente solo monete dâoricalco, sei sesterzi e due dupondi, in uno dei due scomparti, per gli spiccioli, mentre lâaltro, per le monete dâoro e i denari dâargento, era vuoto. Barnaba sapeva che il parente avrebbe dovuto possedere ancora molta pecunia per saldare i tappeti e pagarsi il viaggio di ritorno e aveva pensato a un furto, non da parte omicida, però, ma di guardie, il centurione stesso? Aveva ragionato: perché mai un rapinatore di strada avrebbe dovuto attardarsi a togliere le monete di valore lasciando la minutaglia, invece di carpire semplicemente la borsa come tutti i grassatori fanno, e fuggire prima che qualcuno potesse sopraggiungere? Nondimeno, per evitare contrattempi e forse guai, il levita aveva tenuto il sospetto per sé.
Dopo una notte di sonno sbattuto, allâapertura dei bazar Barnaba aveva acquistato una sindone, un sudario e unguenti sepolcrali e preso accordi con un paio di greci, di professione scalpellini, tagliapietre e affossatori, che avevano bottega nella stessa zona. Era giunto al posto di polizia coi due sul loro carro, trainato, come il levita aveva notato con disagio, da una coppia di muli: le norme ebraiche di purità vietavano dâincrociare specie diverse di bestie e anche dâavvalersi dei loro ibridi nati, ma Barnaba non aveva scelta in quella città in maggior parte pagana. I necrofori, esperti tanto di funerali gentili che ebrei, avevano caricato sul loro carro lâoccorrente per una sepoltura giudaica. Il levita aveva ordinato ai due operai di lavare il corpo di suo zio e ungerlo con gli oli; quindi, dopo aver personalmente posato il fazzoletto funebre sul capo del defunto e aver elevato una preghiera, aveva comandato dâavvolgere la salma nella sindone. Col carro i tre vivi e il morto avevano raggiunto il sepolcreto, che si trovava a un mezzo miglio da Perge: si trattava dâun canalone coperto di sassi, pruni e arbusti che passava, per la lunghezza dâun terzo di miglio e la larghezza media dâun centinaio di cubiti, fra due pareti rocciose butterate da piccole caverne a varie altezze; le tombe erano state ricavate, aggiungendo alla natura lâopera dellâuomo, sfruttando le grotte che sboccavano a livello del suolo. Dopo che il levita, in piedi accanto al carro, aveva recitato le ultime orazioni per il defunto, i necrofori avevano portato il corpo, con la sindone che lâavvolgeva, in una grotta ancora libera dove lâavevano deposto supino; quindi avevano chiuso lâantro con pietre raccolte sul luogo, a moâ di mattoni naturali, legandole fra loro con calce; avevano lasciato unâapertura, grossolanamente quadrata, a livello terra con lato di poco più dâun cubito e mezzo, dalla quale, strisciando, si sarebbe potuto accedere allâinterno; quindi avevano scavato sul terreno, accosto alla tomba, una guida lunga cinque cubiti e larga circa un palmo, lâavevano ricoperta con piccoli ciottoli piatti e vi avevano posto e ruotato, a chiusura dellâingresso, una lapide cilindrica, appena più stretta del corridoio e di diametro un poâ maggiore della diagonale dellâapertura, ruota tombale che avevano preso in bottega tra altre preventivamente lavorate e dove, su quello che sarebbe stato il lato esterno, Barnaba aveva fatto incidere, sia in aramaico sia traslitterato in alfabeto greco, il nome dello zio.
Il levita aveva dedicato i sette giorni seguenti a purificarsi dalla contaminazione del cadavere, secondo le norme mosaiche di purità contenute nel libro della Torah Bemidba: ââ¦chi avrà toccato un cadavere umano sarà immondo per sette giorni. Quando uno si sarà purificato con quell'acqua il terzo e il settimo giorno, sarà mondo; ma se non si purifica il terzo e il settimo giorno, non sarà mondoâ2.
Compiuto il rito, lâottavo dì sâera imbarcato per Salamina con le sue sementi. A casa aveva scritto e affidato a un corriere una lettera per la moglie e il figlio di Gionata Paolo, con dettagliate notizie sulla tragedia. Non aveva chiesto loro il rimborso, al netto dei pochi spiccioli del defunto che aveva trattenuti, dei costi della sepoltura e del forzato soggiorno a Perge per altri sette giorni: a differenza dello zio, Barnaba considerava il denaro un mero strumento e non una gratificazione del Signore per i giusti; peraltro seguiva sì i 10 comandamenti di Mosè, il precetto della decima al tempio e le norme di purità ma, come moltissimi altri suoi correligionari, non scendeva a minute bigotterie nonostante, secondo i pignoli dottori della Legge, tutti dâorigine farisaica, fossero da ritenersi giusti solo coloro che si sforzavano di rispettare, comâera stato per il padre di Marco, tutti i 613 precetti della Legge nessuno escluso, tra i quali figuravano addirittura obblighi come quello di recitare, ogni volta che ci si ritirava al gabinetto, questa preghiera di benedizione: âSii tu benedetto, Signore nostro re dellâuniverso, che hai fatto lâuomo con sapienza e hai creato in lui molti fori e vani. à rivelato e si conosce dinanzi al Trono della tua Gloria che se uno di questi sâaprisse o uno di quelli si serrasse, sarebbe impossibile vivere e rimanere davanti a te. Benedetto sei tu Signore, che curi ogni corpo e agisci magnificamenteâ3.
Ben si comprende quanto il lutto avesse gettato nellâafflizione il giovane Marco e sua madre. La vedova Maria, quando finalmente sâera data pace, aveva venduto per conto del figlio, unico erede di Gionata Paolo, il bazar di tappeti, causa indiretta della morte del diletto marito e padre, e aveva investito il ricavato in un bellâappezzamento di terreno in aggiunta a quelli già posseduti: aveva ragionato che, così, Marco non avrebbe dovuto fare viaggi lunghi e pericolosi per acquistare merce; aveva inoltre vietato al figliolo dâandare a Perge a visitare la tomba paterna, perché âdi morti in casa, ne basta e avanza già unoâ e, peggio ancora, dâandarvi a cercare gli assassini, come lui avrebbe voluto: âUnâideaâ, lâaveva rimproverato con fermissimo tono, âdel tutto assurda, che poteva venire in mente solo a un bambino come teâ.
Capitolo IV
Erano passati due anni dallâomicidio ed era il venerdì 6 aprile della settimana di Pasqua dellâanno di Roma 783.4 Era tramontato da poco il sole del giovedì e, col primo buio, era iniziato il giorno pasquale sia per il popolo sia per la chiusa setta degli esseni che computavano la data di Pasqua seguendo il calendario solare; invece per le sette dei sadducei e dei farisei il gran giorno sarebbe stato solo lâindomani, ché stabilivano la solenne ricorrenza secondo il calendario lunare, onde per loro il 6 aprile di quellâanno era solo la parasceve, cioè il giorno dei preparativi. 5
Un rabbì originario di Nazareth di Galilea e dodici suoi seguaci sâerano riuniti al primo piano della dimora amica di Marco e di sua madre, per celebrare la cena pasquale entro la città santa di Gerusalemme comâera prescritto a tutti gli ebrei quando possibile. Lâagnello tradizionale di Pasqua che sarebbe stato consumato dai tredici al culmine del solenne convivio era stato comprato dal discepolo del rabbì e tesoriere del gruppo Giuda Bar Simone detto lâIscariota6 e presentato al tempio dovâera stato ritualmente scannato da un ministro del culto.
La vedova di Gionata Paolo aveva conosciuto il maestro nazareno