Le Indagini Di Giovanni Marco Cittadino Romano. Guido Pagliarino

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Le Indagini Di Giovanni Marco Cittadino Romano - Guido Pagliarino

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di Gerusalemme, il sinedrio, in cui sedevano sacerdoti, scribi e certi anziani della comunità, ricchi potenti che tramavano per arrestarlo al più presto e consegnarlo al tribunale romano con un’accusa passibile di morte, poiché li aveva pubblicamente criticati e ingiuriati sulla piazza antistante il tempio. Per quei potenti non si trattava solo di vendetta, essi lo temevano perché in suoi insegnamenti erano una minaccia continua per loro; egli insegnava infatti, senza mezze parole, che in ogni tempo i capi delle collettività non devono esigere d’esser lodati e serviti ma, al contrario, devono essere a disposizione del popolo; e affermava che l’Eterno aveva stabilito che purità e impurità d’un essere umano non stanno nell’adempiere o no i precetti formali della Legge, non nel commissionare per adorazione sacrifici d’animali7 e offerte di primizie e nello svolgere i rituali inventati da sacerdoti e dottori della Legge per averne prestigio e guadagno, ma nelle scelte d’amore o di odio per il prossimo. Se questi insegnamenti avevano allarmato assai i capi d’Israele, avevano all'inverso entusiasmato molti come la Maria la vedova.

      Il giovane Marco non era fra i seguaci del rabbì, ma essendo ufficialmente il padrone di casa e religiosamente maggiorenne da un biennio,8 avrebbe avuto il diritto di stendersi al posto d’onore sulle stuoie della mensa pasquale assieme agli invitati. Se n’era tuttavia astenuto perché, seguendo gli usi farisaici paterni, egli con la madre e i servi avrebbe festeggiato la Pasqua la sera seguente, e difatti un altro agnello era stato immolato per loro nel tempio. Dunque i tredici erano stati lasciati soli nel cenacolo, completamente liberi di celebrare la festa fra di loro.

      Inaspettatamente, a un certo punto della serata uno del gruppo, quel Giuda che aveva provveduto all’agnello, era sceso spedito al pian terreno con una brutta smorfia sul volto, le guance porporine, e aveva infilato la porta di casa senza nemmeno salutare Marco, ch’era nell’atrio. Il giovane s’era chiesto se quell’uomo avesse ricevuto un improvviso, urgente incarico dal maestro, al suo carattere piaceva infatti moltissimo indagare su fatti in ombra; ovviamente avrebbe voluto, prima di tutto, scoprire e far arrestare gli assassini del padre, ma ormai lo riteneva irrealistico: mancava qualche anno ancora allo straordinario sogno che l’avrebbe spinto a investigare. Non vedendo più tornare Giuda, la curiosità del ragazzo s’era accresciuta. Quando il gruppo del nazareno aveva lasciato la casa dietro al maestro per recarsi a dormire, su concessione di Maria, nel capanno dell’uliveto detto Getzemani che Marco aveva ereditato, il giovanissimo proprietario aveva detto alla madre che avrebbe accompagnato i dodici, sarebbe rimasto anch’egli per la notte e avrebbe fatto rientro alle prime luci: s’augurava in cuor suo che, cammino facendo, avrebbe conosciuto le ragioni dell’uscita imprevista dell’Iscariota e del mancato suo ritorno.

      Maria restava assai protettiva verso il figlio, come di norma le madri ebree, almeno in quei tempi; allarmata, aveva esclamato con tono acceso, pur sapendo che le sue parole non sarebbero servite affatto contro la testardaggine del ragazzo: “…ma cosa vai a fare là di notte?! È mai possibile che tu debba sempre farmi preoccupare? Perché non ascolti per una volta la tua mamma?!”.

      Maria aveva solo quindici anni più del figlio ed era ancora una bella donna, piccolina ma dai tratti fini e un corpo florido che molto piaceva in quei tempi, e terminato il periodo del lutto aveva ricevuto proposte di matrimonio da diversi vedovi, anche perché avrebbe ereditato beni alla morte dei propri genitori: proposte tutte rifiutate in quanto la donna aveva deciso di dedicarsi interamente a Marco.

      Con viso mesto, senz’aggiungere altre parole la madre aveva ordinato ai servi di preparare l’occorrente, tre lanterne per illuminare la via e tredici teli di lino dove avvolgersi durante il sonno. Quattro dei discepoli s’erano caricati le lenzuola, tre avevano avuto ciascuno una lampada accesa e il gruppo s’era avviato dietro al maestro, con in coda Marco ch’era uscito ignorando la madre: Maria s’era piantata appena fuori dalla porta e aveva seguito muta il suo passaggio, cogli occhi umidi, accompagnandolo poi con lo sguardo finché il gruppo non era sparito alla vista.

      Il rabbì nazareno era silenzioso, assorto in qualche grave pensiero. I suoi, per non infastidirlo, parlavano a bassa voce e a Marco parevano inquieti: forse temevano un arresto? Eppure, ragionava il giovane, era impossibile che quegli uomini venissero rintracciati nell’uliveto, fuori città e al buio, e certo si sarebbero messi in salvo se, ancor prima dell’alba, avessero lasciato la zona e fossero tornati nella loro Galilea; tanto ormai, soggiungeva a sé stesso, avendo soddisfatto l’impegno dei festeggiamenti pasquali a Gerusalemme, non avevano più motivo di restare.

      Marco non aveva resistito per molto e aveva domandato all’appena più anziano di lui Giovanni Bar Zebedeo, ch’era in coda al gruppo al suo fianco e, unico, pareva del tutto tranquillo: “Perché il tuo condiscepolo ha abbandonato quasi di corsa la cena e non è più tornato?”.

      â€œAveva avuto un improvviso incarico dal maestro”, aveva risposto l’altro confermando la sua ipotesi, “ma quale non saprei perché gli aveva parlato a bassa voce. So che, in tono più alto, l’aveva infine esortato dicendogli: “Quello che devi fare, fallo presto!”. Avevo presunto l’avesse inviato a cercare altre provviste, ma visto che Giuda non è più tornato, ora non saprei che pensare, né oso chiederlo al rabbì”.

      Era intervenuto Giacomo Bar Alfeo, parente del maestro, che procedeva sùbito innanzi ai due e voltando la testa aveva sussurrato al condiscepolo: “Io non sono affatto tranquillo dopo che, a cena, il rabbì ci ha annunciato che uno di noi lo tradirà e lui sarà arrestato, mentre noi fuggiremo”.

      â€œIl traditore non potrebbe essere Giuda?” s’era frapposto Marco.

      â€œMah”, aveva considerato Bar Alfeo, sempre sottovoce, “il maestro gli avrebbe dato un incarico di fiducia se avesse sospettato di lui?! e poi, solo dopo che Giuda era uscito ci ha detto che l’avremmo abbandonato, perciò penso che il rinnegato sia tra noi undici, anche se certamente non sono io”.

      â€œâ€¦e nemmeno io! e non l’abbandonerò mai!” s’era risentito Giovanni, come se l’altro avesse sospettato proprio di lui; e aveva proseguito: “Hai trascurato d’aggiungere che il maestro ha pur detto che uno di noi invece non fuggirà e sarà con lui fino alla morte; e io sento d’essere quel discepolo”: la sua voce appassionata aveva attratto l’attenzione di tutto il gruppo compreso il rabbì, il quale s’era fermato e voltato. A questo punto era stato tutto un vociare rivolto al maestro, per primo un certo Simon Pietro che aveva esclamato: “Io non ti lascerò mai, mai, mai!”; suo fratello Andrea, per non essere da meno aveva espresso con foga: “…e figuriamoci un po’ se me ne andrò io, rabbonì!”, parola che significa maestro mio ed esprime la massima devozione possibile verso il proprio rabbì; da Giacomo Bar Alfeo era giunto un urlo, o quasi: “Non dare retta a Giovanni! Sono io quello che non t’abbandonerà”; un tale di nome Taddeo aveva espresso: “…e chi potrebbe lasciarlo, un maestro come te?!”; insomma, uno per uno tutti avevano promesso assoluta fedeltà; quindi, per buon peso, nemmeno si fossero messi d’accordo prima, avevano pronunciato all’unisono: “Nessuno di noi t’abbandonerà mai, o rabbonì!”.

      â€œPietro, tu che hai promesso per primo sappi che, avanti che il gallo canti due volte, tu m’avrai tradito tre volte”, aveva profetizzato il maestro, “e come avevo annunciato, tutti voi tra poco scapperete, a parte uno: e dico adesso ch’egli è il giovane Giovanni”. Quindi, impartito l’ordine di non parlare più, il maestro s’era di nuovo immerso nei propri pensieri.

      Giunti al podere Getzemani, Marco e otto degli

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