Delitti Esoterici. Stefano Vignaroli

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Delitti Esoterici - Stefano Vignaroli

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non avrei avuto la forza di fare quello che stiamo per fare.»

      Prese delle forbici affilatissime e si tagliò accuratamente i biondi peli pubici, fino a rendere la zona genitale del tutto glabra. Li raccolse dentro un calice dorato e la stessa cosa fece poi con i peli pubici di Larìs, molto più scuri dei suoi. Quindi prese da alcuni contenitori delle erbe essiccate, compresa un po' di quella miscela che avevano fumato in precedenza, e amalgamò il tutto, aggiungendo dell'olio, dopo di che depose con cura il calice al di sopra della piastrella centrale. Preparò altre due sigarette, che avrebbero fumato, ancora nude, fino a raggiungere un certo grado di oblio, fin quasi alla trance. Intanto si era fatto buio e in cielo risplendeva il grande cerchio della luna, che lentamente veniva oscurato dall'ombra della Terra, in quel raro momento magico di allineamento dei tre corpi celesti. Nel momento in cui la luna fu completamente oscurata e la sua posizione era evidente solo come un alone rossastro, le due donne, nude, sedute sul pavimento unirono le mani e i piedi a formare un cerchio intorno e sopra il calice. Aurora pronunciò una formula magica: «Has Sagadà, Artemisia.»

      La finestra si spalancò, una saetta entrò nel salone e andò a incendiare il contenuto del calice. Si levò un fumo grigiastro, dal cattivo odore di carne bruciata, che ricordava l'odore della strega messa al rogo quattro secoli prima. Il fumo si modellò e prese le sembianze di una donna che, volteggiando e danzando, raggiunse Aurora e si fuse con il suo corpo. Adesso Aurora era Artemisia e Artemisia era Aurora. Larìs assisteva inerme a questo fenomeno. Quando l'ultimo filo di fumo scomparve assorbito dal corpo di Aurora e il contenuto del calice si fu dileguato del tutto, le due donne caddero in un sonno profondo ed ebbero la visone di ciò che era accaduto quattrocento anni prima. Aurora viveva la visione in prima persona, nei panni di Artemisia, mentre Larìs la viveva come spettatrice, mescolata alla folla che assisteva al supplizio della strega.

      Artemisia era legata al palo, sotto i suoi piedi erano state sistemate fascine derivanti dalla potatura degli olivi, e poi ciocchi più grossi di legna resinosa di pino e di abete. Il tutto era stato anche cosparso di olio per lampade. Agli altri quattro pali, che erano stati disposti a semicerchio dietro il suo, rispetto agli spettatori, erano state legate le sue quattro compagne: Viola, Emanuela, Alessandra e Teresa. Quest'ultima detta anche "il maschiaccio", in quanto era stata sorpresa più volte mentre giaceva con altre donne, era stata addirittura tacciata di essere un ermafrodita, persona in cui convivevano organi sessuali maschili e femminili. Era una donna dal clitoride talmente sviluppato da simulare un piccolo pene, capace anche di raggiungere l'erezione. Queste ultime quattro donne non sarebbero state bruciate, anche se qualche fascina era stata deposta ai loro piedi. Avevano confessato le loro colpe e avevano indicato Artemisia come loro “guida spirituale”, pertanto erano state legate ai pali, sia come monito alla popolazione locale, che per assistere da vicino al supplizio della loro ispiratrice. Come mai stava per aver luogo l'esecuzione, dal momento che il Doge di Genova aveva messo il veto agli Inquisitori della Chiesa, assicurando alle donne che non avrebbe permesso, in quei tempi moderni, una condanna a una morte così atroce? Il Doge andava fiero del fatto che un suo concittadino avesse scoperto, neanche un secolo prima, una nuova terra, l'America, mettendo fine a quel periodo buio che era stato il Medioevo. Non avrebbe pertanto mai permesso che la Chiesa, tramite l'Inquisizione, facesse bruciare vive queste donne, anche se erano state giudicate colpevoli di stregoneria, eresia, commistione con il diavolo, delitti contro Dio, contro la Chiesa e contro gli uomini. Il tutto era cominciato un anno e mezzo prima, nell'autunno del 1587, quando il Podestà, Stefano Carrega, e il parlamento locale, avevano indicato le streghe abitanti alla Ca Botina come principali responsabili della grave carestia, che da qualche tempo si era abbattuta su tutta la zona, e avevano chiesto al Vescovo di Albenga di istituire un processo alle presunte streghe, affinché fosse messa fine alle loro malefatte con una punizione esemplare, la condanna al rogo. Erano giunti in paese due inquisitori, due frati domenicani vestiti di nero, uno era il Vicario del Vescovo e l'altro il Vicario dell'Inquisitore di Genova. I “corvi”, come li chiamava la gente del luogo, fecero arrestare le cinque streghe abitanti alla Ca Botina, le quali, sotto tortura, accusarono molte altre donne del paese, non solo di origini contadine, ma anche appartenenti alle famiglie più nobili. A un certo punto gli inquisitori erano arrivati ad arrestare circa duecento presunte streghe e il Consiglio degli Anziani, considerato anche che già due donne erano morte, una per le torture inflitte, un'altra caduta da una finestra in seguito a un tentativo di fuga, decise di rivolgersi al Doge di Genova, perché ponesse fine al processo e facesse sì che venissero condannate solo le vere streghe, quelle della Ca Botina, il gruppo legato ad Artemisia, in tutto tredici donne e una fanciulla di 13 anni. Il governo genovese, quindi, non del tutto convinto della regolarità del processo a Triora, decise di interessarsene più da vicino. Passarono alcuni mesi in cui, mentre il Doge di Genova e il Vescovo di Albenga non trovavano un accordo sulla competenza per procedere, le donne rimanevano in prigione alla mercé di carcerieri che non risparmiavano loro umiliazioni e ne abusavano anche sessualmente. Nel successivo mese di Maggio, giunse a Triora l'Inquisitore Capo, per visitare le donne in carcere e accertarsi della situazione. Dopo averle di nuovo sottoposte alla tortura del fuoco, confermò le accuse per le tredici donne e lasciò libera la ragazzina. Le donne furono processate con le accuse di reato contro Dio, commercio con il demonio, omicidio di donne e bambini. Ad Agosto si giunse alla conclusione del processo, con la condanna a morte per Artemisia e le altre quattro donne più unite a lei: Emanuela Giauni, detta Emanuela la Capricciosa, Viola e Alessandra Stella e Teresa Borelli, detta Teresa il Maschiaccio, per la sua abitudine di portare i capelli corti, vestire abiti maschili e giacere con altre donne. Quando sembrava che ormai l'esecuzione della condanna delle cinque donne, per impiccagione e incenerimento dei resti, fosse imminente, intervenne il Padre Inquisitore di Genova, chiedendo che fosse rispettata la sua carica, fino a quel momento estromessa dal processo. Spettava a lui, infatti, in quanto rappresentante dell'Inquisizione di Roma, giudicare i crimini delle streghe. Così le cinque condannate vennero trasportate a Imperia e da lì, a bordo di una nave, fino a Genova, dove furono rinchiuse nelle carceri governative, in quanto l'Inquisizione non aveva posto sufficiente, andando a far compagnia ad altre presunte streghe di altre cittadine della zona. Tutto sembrava andare per il meglio, in quanto il Doge aveva promesso che avrebbe fatto in modo, ora che erano sotto la sua protezione, di salvare loro la vita. Le avrebbe tenute in carcere per un periodo, poi, quando la popolazione si fosse dimenticata di loro, le avrebbe rese libere, col patto di non fare ritorno al loro paese di origine. Ma il maligno, sotto le spoglie mortali del Podestà e del capo del Consiglio degli Anziani di Triora, ci mise lo zampino. Non fu difficile, per gli scagnozzi assoldati dai due illustri personaggi, corrompere i carcerieri con poche monete d'argento, sostituire le cinque streghe con altrettanti cadaveri di povere donne, morte per malattia o per gli stenti dovuti alla carestia che ancora imperversava tra i monti dell'alta Valle Argentina, e riportare le cinque streghe a Triora per un'esemplare esecuzione pubblica.

      Legata al palo, Artemisia ripercorreva con la mente le principali tappe della sua vita, a partire dalla sua iniziazione, quando, poco più che tredicenne, si ritrovò al centro del cerchio magico, creato da sua mamma, sua nonna e altre adepte della setta, nei pressi della Fonte della Noce, una fontana situata sotto un grande albero di noci. Già allora aveva percepito la forte presenza del Maligno, una forza negativa all'esterno del cerchio, che voleva le sue vittime per assimilarne i poteri e diventare impareggiabile nella sua malvagia potenza. Gli insegnamenti trasmessi dalla mamma e dalla nonna, l'acquisizione dei poteri della veggenza e dell'uso del tatto e della vista per percepire e guarire i mali del corpo e dell'anima, erano stati da lei sempre utilizzati a fin di bene. Aveva appreso i poteri curativi delle erbe,diventando abile nel produrre pozioni che abbassavano la febbre, che toglievano i dolori, che aiutavano le donne partorienti durante il travaglio. Aveva imparato a usare, nelle giuste dosi, spore di funghi velenosi, da applicare su ferite infette per far regredire le secrezioni purulente. Aveva imparato a fabbricare talismani, a recitare le formule magiche di rito, a eseguire incantesimi di invisibilità, a formare i cerchi magici protettivi. Ma non aveva mai usato i suoi poteri per scopi malvagi, mai. Eppure, alla fine, era stata additata come strega e, insieme alle sue quattro compagne più fidate, Emanuela, Viola, Alessandra e Teresa, era stata imprigionata e torturata con la corda, con il fuoco e con l'acqua. All'inizio dell'estate del 1588 era giunto nella sua cella il Podestà, Stefano Carrega, che era colui che aveva iniziato la caccia alle streghe e, in quel momento, Artemisia

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