Le Tessere Del Paradiso. Giovanni Mongiovì

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Le Tessere Del Paradiso - Giovanni Mongiovì

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style="font-size:15px;">      «Temo che il Re mandi voi questa volta!»

      «Vostro marito si cura più dei propri sollazzi che della perdita del presidio di Mahdia.»

      «Sapete bene come la guerra per lui faccia parte di uno di questi sollazzi. Egli impugnò personalmente la spada quando ci fu da sedare la ribellione dei baroni.»

      «Allora era in gioco la sua stessa corona. E poi non offuscherà il mio consiglio per imporre il suo. Quando mai Guglielmo ha preso una decisione risoluta per il Regno?»

      «Si fida di un uomo più capace e degno di lui!»

      «Sappiate perciò che non partirò, né salperà una sola galea.»

      Margherita si sedette sul letto, spostò i suoi lunghi capelli e fece meravigliata:

      «I figli dei nostri servitori e i cadetti delle nostre nobili famiglie sono in quel presidio…»

      «Si arrendano e conservino la vita; poco mi importa! L’incolumità di un pugno di soldati non è mai stata una priorità per nessun ministro o sovrano. Difendere Mahdia è uno sforzo che non possiamo permetterci.»

      Majone spiegava la questione e liquidava i timori della Regina, adducendo come giustificazione il bene del Regno, tuttavia ben altri motivi albergavano nel cuore del perfido Ammiraglio…

      Majone e Margherita si incontravano da qualche tempo nella locanda sita presso la porta di Sant’Agata, scelta tra tutte le altre perché da quella strada l’Ammiraglio ci passava per tornarsene a casa. La Regina, che per quegli incontri adulterini godeva della complicità del suo eunuco più fidato, quella notte se ne tornò a Palazzo tutta intristita e seria.

      «Voi non siete voi questa sera.» commentò Amjad una volta che ebbe accompagnato la Regina nel suo appartamento.

      Margherita espresse dunque tutte le sue ansietà riguardo al futuro dei poveri soldati di Mahdia e al mancato intervento dell’Ammiraglio.

      «Vi è il figlio della cuoca di corte tra quei poveretti che devono difendersi dall’assedio del saraceno. Quando ho provato a dirlo a Majone, lui mi ha risposto che nell’esercito del Regno i poveracci ci entrano su base volontaria… che l’hanno scelto loro questo destino.» aggiunse, scendendo nel particolare.

      Amjad si sfregava le mani; adesso era sicuro che Abd al-Mu’min avrebbe vinto. Quella stessa notte scrisse di suo pugno una lettera indirizzata al califfo, in cui lo informava che non sarebbe giunto nessun aiuto o vettovaglia a ristorare il presidio cristiano. Assicurò la missiva a dei commercianti arabi diretti a Tunis44 e quindi si mise ad aspettare che l’informazione sortisse l’effetto desiderato.

      In effetti la notizia piacque molto ad Abd al-Mu’min, tanto che rigirò il messaggio proprio al contingente siciliano arroccato nella fortezza della città. Così intendeva scoraggiarli e indurli alla resa, far crollare la fiducia che nutrivano per il Re ed il Regno, e proporre loro l’abiura e il tradimento. Ma gli assediati, che avrebbero potuto tradire Guglielmo ma non Dio, scelsero comunque di tenere ancora duro.

      Nei primi di gennaio del 1160 i siciliani arroccati nella fortezza arrivarono a mangiare i propri cavalli e allora fu loro chiaro che per sopravvivere avrebbero dovuto inginocchiarsi al nemico. Chiesero perciò ad Abd al-Mu’min di conservare la vita, i propri beni e la libertà. Il califfo rispose che era disposto a concedergli anche di più, ma solo se si fossero convertiti all’Islam. Quel contrattare la propria vita durò per ancora qualche giorno e alla fine Abd al-Mu’min, persuaso dalle loro parole, li liberò e li rimandò in Sicilia. Così il califfo almohade scongiurava possibili ripercussioni sugli islamici di Sicilia e concedeva la libertà a gente che lo avrebbe d’ora in poi stimato più del vile Re che servivano. Il 21 di gennaio l’Africa siciliana cessava di esistere.

      La notizia sconvolse le coscienze dell’intera nobiltà del Regno e fu in quell’esatto momento che alcuni degli ottimati più in vista decisero che non avrebbero più incontrato la faccia di Majone se non da morto. Accusavano il Re, ma soprattutto l’Ammiraglio, di aver abbandonato i cristiani di Mahdia al proprio destino. Per di più, la maggior parte di coloro che Abd al-Mu’min aveva rimandato in Sicilia era perita in un naufragio. Tali morti era come se li avesse causati il califfo e non il mare, e quindi lo stesso Majone a causa della sua inadempienza. Accusavano inoltre gli eunuchi di corte e gli altri saraceni di Sicilia di essere in combutta con gli almohadi e di aver favorito la sconfitta di Mahdia, cospirando insieme all’Ammiraglio affinché non fossero inviati gli aiuti necessari. Il clima di contestazione non era mai stato tanto incandescente e già tra il popolo si temeva che prima o dopo qualcosa sarebbe successo.

      Quando si seppe poi della missiva di Amjad, benché nessuno sospettò in particolare dell’eunuco della Regina, fioccarono le accuse e si rischiò il tumulto. Alcuni tra i baroni dicevano che gli almohadi erano già a Palermo, nascosti tra la popolazione saracena connivente e complice del califfo, e che presto si sarebbero manifestati facendo strage dei cristiani e profanando le loro chiese. Chiaramente alcune fazioni del popolo ci credettero e fecero presto a manifestare il proprio dissenso. Dunque Majone, a cui la situazione era sfuggita di mano ed era già accusato di tradimento, fu costretto ad emanare il decreto secondo il quale per i saraceni fosse proibito portare armi addosso. Così acquietava gli animi, disarmava quei nemici dell’immaginario collettivo e fugava sensibilmente le accuse rivoltegli.

      Il pericolo era reale, davvero Abd al-Mu’min stava conquistando l’intero Nordafrica, ma la percezione del pericolo tra la popolazione cristiana del Regno superava di gran lunga il pericolo stesso. Chi cavalcava il consenso che solo la paura diffusa può determinare erano i nobili, avversi per interesse politico e personale all’Ammiraglio.

      Margherita di Navarra non aveva ancora trent’anni, eppure dimostrava di avere tanta di quell’intelligenza da rendere evidente come la sua presenza fosse sprecata accanto ad un sovrano come Guglielmo. Intelligente e spregiudicato era invece Majone di Bari, quasi vent’anni più vecchio di lei, con cui più di una volta aveva sognato di condividere lo scettro regio e la corona.

      Quando la Regina apprese che ai poveri cristiani di Mahdia fosse stato mostrato un messaggio proveniente direttamente dalla corte, non poté fare a meno di sospettare di Amjad, colui col quale si era confidata. Ovviamente ciò che le stava più a cuore non era tanto il tradimento del Regno, quanto invece il tradimento delle sue confidenze private.

      Un giorno se ne stava seduta allo specchio, a tu per per tu con la sua immagine riflessa e la sua vanità. Vestiva morbidi abiti a foggia orientale e pure il suo trucco sembrava quello della prediletta di un emiro. Margherita, pur essendo straniera, non aveva saputo resistere al fascino delle mode in voga tra le donne di Sicilia, così lontane dagli austeri costumi del resto d’Europa.

      Amjad, da dietro, le allacciava collane e orecchini, spostandole i capelli e scoprendole il collo affinché potesse valutare bene quale monile indossare. Margherita allora fissò allo specchio il riflesso degli occhi neri e profondi del suo eunuco e, dopo aver emesso un lungo respiro, gli disse:

      «Sono stati così orribili questi dieci anni in cui hai dovuto servirmi, Mattia?»

      «Mia Signora, per la piacevolezza mi sono sembrati un solo giorno.» rispose lui, non immaginando certo cosa nascondesse quella domanda.

      «E da quale ora di questo giorno hai cominciato a raccontare i segreti detti in questa stanza?»

      Adesso lo sguardo della Regina manifestava tutta la sua delusione.

      «Cosa dite?» chiese Amjad, sminuendo col tono della voce l’accusa di lei.

      «È

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<p>44</p>

Tunis: Tunisi