Le Tessere Del Paradiso. Giovanni Mongiovì

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Le Tessere Del Paradiso - Giovanni Mongiovì

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è in combutta con i saraceni d’Africa e protegge gli eunuchi del Re, i quali tramano la rivolta per riconsegnarci agli emiri e ai califfi.» spiegò un altro tra i compari del porto.

      «Questi argomenti lasciali al tuo nobile di fuori città; costui avrà sicuramente le giuste argomentazioni per difendersi. Tu invece sei un poveraccio… e i poveracci, caro Duccio, devono parlare da poveracci! Il nostro unico ideale è quello di riempirci le tasche.»

      «Vittore, è un discorso da poveracci dire che costui seduce le nostre sorelle per toglier loro l’onore?» aggiunse sarcastico Mamiliano.

      «Se qualcuno dei presenti ha una sorella disonorata da quel tale, lo dica adesso e lasceremo andare questo povero cristo.»

      «Le giovani figlie dei nobili ribelli sconfitti… lo sanno tutti, Vittore… E poi c’è la storia della sorella del genovese…» stava per raccontare Mamiliano.

      «Il genovese non è dei nostri!» lo interruppe Vittore.

      «Il genovese fa parte della corporazione dei mercanti di stoffe. E riguardo alle figlie dei nobili, Mamiliano, so bene che sono storie vere; ma a noi cosa ce ne importa?» concluse infine.

      Quel breve dibattito si chiudeva lì. In realtà menti più colte avrebbero potuto addurre accuse ben più concrete all’operato di Majone, ma persi tra il “non ci riguarda” e il “per sentito dire” decisero che avrebbero consegnato lo straniero all’Ammiraglio del Regno così da riscuotere la ricompensa.

      «Dove mi portate?» chiese Alessio.

      «Pare che Majone sia disposto a pagare per mettervi le mani addosso.» gli rispose Mamiliano, sin dall’inizio il meno propenso alla cosa.

      Alessio, che aveva deciso di accettare quella missione per avere redente le sue colpe, che sarebbe stato disposto pure a morire per espiare il male che aveva commesso, adesso cominciava a provare nostalgia per la vita che stava per lasciare. Tuttavia, coerentemente alla sua prima decisione, non disse più nulla e con rassegnazione si fece condurre da quegli uomini sino alla tana del lupo.

      Percorrendo l’ampia via Marmorea, incontrarono un paio di guardie della ronda. Uno di quei soldati corse subito verso la chiesa dove spesso si intratteneva a pregare Majone di Bari, per avvisarlo dell’avvenuta cattura. Ogni uomo in armi era stato infatti istruito che avrebbe dovuto condurre il ricercato direttamente al cospetto dell’Ammiraglio, ovunque egli si trovasse.

      Non erano ancora giunti all’altezza dell’incrocio da cui si imbocca la via per la chiesa edificata da Majone – guarda caso costruita proprio accanto a quella di Giorgio d’Antiochia, il suo più illustre predecessore – che videro arrivare la guardia inviata prima.

      «Al palazzo dell’Arcivescovo, presto!»

      Ripresero perciò a percorrere la strada principale che divide il Cassaro, in direzione del Palazzo Reale.

      Dopo un po’ passarono sotto l’abitazione di Giordano di Rossavilla e Alessio non poté fare a meno di pensare a come tutto fosse cominciato con l’inganno di quell’uomo e con l’illusione di ritrovare Zoe. Questa volta tutto taceva e Alessio sperò che il suo nobile rivale lo seguisse nella morte quella stessa notte, non riprendendosi mai più dalla sua malattia.

      Giunti sulla piazza della Cattedrale svoltarono a destra, e qui, proprio sull’incrocio, aspettarono che la guardia entrasse nel palazzo dell’Arcivescovo, sito sul retro della grande chiesa, per avvertire l’Ammiraglio. Venne quindi fuori Majone, il quale, tutto concitato, si avvicinò agli uomini che tenevano in custodia Alessio. Vittore e Mamiliano trattenevano ancora il prigioniero per le braccia quando l’Ammiraglio lo prese per il mento e lo indusse a guardarlo negli occhi. Sorprendentemente, lo stupore colse Alessio più di Majone. Adesso il maestro d’arte era sicuro che sarebbe morto e probabilmente anche quella stessa notte. Ecco infatti svelata l’identità dell’uomo che lo aveva aggredito alla locanda!

      La notte in cui era stato ucciso il gaito Luca, Majone si trovava al piano superiore di quello stesso edificio ed era in compagnia di una donna, presumibilmente della stessa signora affidata alla cura dell’eunuco, ovvero la Regina. L’Ammiraglio temeva la testimonianza di Alessio più di quanto Alessio temesse la testimonianza dell’Ammiraglio. Le voci sulla tresca tra il primo uomo del Re e la Regina erano diffuse in tutto il Regno, ma, di fronte ad una prova del genere, per certo neanche l’indolente Guglielmo sarebbe rimasto indifferente.

      Alessio strizzò gli occhi e spalancò la bocca per la meraviglia di quell’incontro. Majone invece incattivì lo sguardò e digrignò i denti.

      «Che questa bestia non viva oltre questo momento!» sentenziò, indicando in tal modo alle sue guardie quale fosse il prossimo ordine da portare a termine.

      Strapparono dunque Alessio dalle mani di Vittore e lo condussero per altri luoghi. Lo sfortunato artista passò ora dinanzi all’ingresso del palazzo dell’Arcivescovo e qui, vedendo stazionare sulla strada tutto il seguito dell’Ammiraglio e credendo che questi avessero a che fare con Ugone, il prelato a capo di Palermo, supplicò:

      «Signori, vi prego, lasciatemi parlare col Vescovo; sono anch’io un uomo di religione!»

      Quelli lo fissarono con apparente indifferenza e tornarono a guardare davanti a sé, verso Majone. Intanto alle spalle di questi si udiva il rumore delle sbarre che la servitù stava mettendo alle porte del palazzo, richiudendo l’ingresso con un’inconsueta premura.

      Alessio, che di fronte alla morte non voleva più morire, puntò i piedi sui basoli della strada e gridò:

      «In nome di Dio, aiutatemi!»

      «Non date peso a quel greco!» urlò Majone, rivolgendosi ai suoi sulla porta e preoccupato che il condannato ne dicesse una di troppo.

      Adesso Alessio si concentrò sulla lama della spada che già una delle guardie aveva sguainato. Pensò che morire trafitto fosse meno doloroso e infamante che morire impiccato. Ora si attaccava a quest’unica consolazione, mentre uno dei due soldati indicava all’altro l’imbocco di una stradina, lì dove il condannato sarebbe stato ucciso.

      «Signore, che la morte copra i miei peccati non redenti!» esclamò il maestro d’arte, guardando il cielo.

      E poi, rivolgendosi alle guardie, pregò:

      «Vi chiedo solo di avere una sepoltura…»

      Ma quelli, saraceni di lingua araba, non compresero nulla, né le parole di Alessio né che da quella notte, quella del 10 novembre 1160, tutto sarebbe cambiato.

      PARTE II – LA MANO DI MALACHITE

      Capitolo 8

      1156 (551 dall’egira) Balermus e dintorni

      La folla si stringeva compatta attorno alla scena, senza dir parola e senza commentare. In molti erano infatti i saraceni che osservavano silenziosi, oltre le spalle delle guardie reali, oltre quella coltre di fumo che si innalzava al cielo congiuntamente alle loro preghiere. Sulla sponda sinistra della foce del wādī al-‘Abbās27, appena fuori dalle mura della città, quel giorno del 1156 il boia aveva appiccato un fuoco che non sarebbe durato fino a sera… ma che tuttavia avrebbe continuato ad ardere per anni nel cuore di Amjad.

      Per ogni giovane islamico non esiste ricordo d’infanzia più importante del khitān28, e per Amjad, che immaginava la circoncisione come una sorta di festa

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<p>27</p>

Wādī al-‘Abbās: nome del fiume Oreto durante il periodo arabo.

<p>28</p>

Khitān: circoncisione rituale islamica.