Il Bargello. Casas Pérez Carlos

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Il Bargello - Casas Pérez Carlos

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e vide il suo volto riflesso sulla superficie. Malgrado i vistosi lividi sul collo, stava sorridendo. In effetti l'occasione non era da meno. La sera scorsa si era coperto di gloria compiendo l'impresa di diventare il primo uomo ad uccidere un albare di cui si avesse notizia. Non era certo cosa da poco. Era stato necessario mettere in gioco tutta l'abilità di quell'uomo corpulento che ora si trovava davanti al catino.

      Jimeno sospettava che il morto fosse stato un soldato, prima di diventare un brigante. Un disertore. Spada di ottima fattura. Giubba di cuoio, cotta di maglia e gorgiera. Per non parlare del cavallo, un vecchio ma robusto destriero che Jimeno rimpiangeva di aver ucciso. Non era qualcosa che un balordo qualunque potesse possedere.

       Se sono ancora vivo è perché sono stato più abile con la spada.

      Rientrando in paese aveva pensato ad un piano per addestrare i suoi abitanti e cogliere di sorpresa dei semplici briganti, ma adesso era tutto diverso: gli albari non erano semplici briganti, e i villici non godevano più del vantaggio della sorpresa.

      E lui non sapeva più cosa fare.

      L'acqua fredda sul viso lo aiutò a svegliarsi del tutto. Quando si girò, sua moglie era accanto alla porta.

      La maternità rendeva Arlena sempre più bella. La moglie del bargello era abbastanza alta da non sfigurare accanto al suo enorme marito e i sei parti non l'avevano appesantita più del necessario. Aveva ancora un fisico simile a quello della fanciulla che aveva conosciuto un tempo e, anche se i folti capelli castani cominciavano ad incanutire per l'età, aveva ancora quel sorriso… Il sorriso che adesso era dipinto sulle sue labbra.

      "Vieni qui…" le disse prendendola per la vita, mentre con l'altra mano cercava di alzarle le gonne.

      E così, per due sole parole, in casa del bargello scoppiò una vivace discussione. Le quattro pareti della casa non sembravano abbastanza solide da contenere le urla. I sassi ascoltavano per l'ennesima volta la coppia che rivendicava i propri opposti punti di vista sulla progenie che non faceva che aumentare e sul modo di metterla al mondo.

      "Sei mia moglie e devi adempiere ai tuoi doveri!"

      "Non se mettono in pericolo nostro figlio". Arlena prese le mani del marito e le appoggiò sul suo addome gonfio. "Stai già mettendo alla prova il mio ventre affinché ti dia dei figli, non insistere a forzarlo anche per ottenere piacere".

      Jimeno, più alto di almeno una testa rispetto a tutti gli altri paesani e dalle larghe spalle, si avvicinò a meno di una spanna di distanza da sua moglie.

      Ma neanche così riusciva a fare in modo che la donna non sostenesse il suo sguardo, senza mai lasciarsi intimidire dall'imponenza del bargello. Lo sguardo rimase fermo anche dopo una serie di imprecazioni che avrebbero fatto vergognare qualunque uomo timorato di Dio.

      Il bargello era passato in pochi istanti dall'euforia all'ira. Era stata una notte lunghissima. Il riposo gli aveva consentito di rilassarsi ma era impaziente che la moglie gli dimostrasse quanto gli era grata per aver salvato la vita a suo figlio Alfonso. Secondo lui era logico che Arlena si dovesse mostrare affettuosa. Era una ricompensa che lui si meritava appieno.

      Ma Arlena la vedeva in modo diverso ed era una donna di carattere; di quelle che una volta presa una decisione, difficilmente cambiano idea. Il

      bargello lo trovava esasperante.

      "Io sono un uomo! E ho necessità che mia moglie non mi può negare!".

      Jimeno si diresse in cucina sentendo i passi della sua consorte dietro di lui.

      Sul tavolo c'era una leccarda mezza piena, ma non c'era nessuno dei suoi figli. C'era anche del fuoco nella stufa. Debole. Prese un paio di ceppi e li buttò dentro con furia.

      Arlena si avvicinò a suo marito, non avrebbe lasciato che Jimeno avesse l'ultima parola.

      "Oltre che moglie sono anche madre, ed è mio dovere proteggere i miei figli che sono anche i tuoi" disse mostrando il rigonfiamento costituito dal figlio non ancora nato, e guardò suo marito negli occhi. "Bisogna svuotare l'otre prima di riempirlo di nuovo" lo rimproverò. "Non insistere, dovrai aspettare che partorisca".

      "Cosa che avresti già dovuto fare" le rimproverò Jimeno. "Quel bambino è lì da troppo tempo".

      Sua moglie aggrottò la fronte e lo indicò con il dito.

      "Ti sbagli…" Arlena contò con le dita mentre elencava i mesi uno dopo l'altro. "Novembre, dicembre… non nascerà prima di gennaio".

      "Sarà meglio che nasca questo mese!" le ordinò Jimeno, come se dipendesse da lei. "Prima della fine dell'anno. Lo sanno tutti che i figli più forti nascono prima dei nove mesi".

      "Mah" disse Arlena sdegnosamente, "nessuno crede a queste cose, lo dicono solo gli ignoranti. E poi ne so più io di te, quanto a partorire".

      "Sì, partorire femmine; di partorire maschi te ne intendi meno, a quanto pare. Tre figlie femmine mi hai fatto da quando hai partorito l'ultimo maschio. È tempo che tu mi dia un altro figlio".

      Arlena guardò suo marito negli occhi, fiera.

      "Non si può intervenire su ciò che Dio dispone al momento del

      concepimento. Nascerà un maschio quando il Signore lo vorrà. E se sei così preoccupato per i tuoi figli maschi, dovresti averne maggior cura. Ciò che rende forte un fanciullo è sentirsi protetto fino al momento in cui diventa uomo" osservò. "Qualcosa che non ti riesce poi tanto bene".

      Il viso di Jimeno divenne paonazzo dalla rabbia. Come osava Arlena accusarlo di quanto era successo la scorsa notte? Quelle cose accadevano quando avevi a che fare con ladri e disertori. Succedevano e basta. Non era colpa sua.

      "Al ragazzo hanno conficcato una lancia nel culo, e allora? È un posto dove non c'è niente di importante" replicò offeso. "Presto starà bene" affermò, "e dovrà ringraziare suo padre che ha ammazzato quel maledetto".

      "Eppure ti dico e ti ripeto che non avresti dovuto portare Alfonso con te sulla montagna in piena notte" lo accusò Arlena. "Un uomo più assennato l'avrebbe capito. Il poveretto è a letto, costretto a dormire a pancia in giù perché non può appoggiarsi sulla ferita. Gli fa male".

      "E gli farà ancora più male quando si sarà cicatrizzata" dichiarò Jimeno, ben sapendo che far guarire le ferite era una parte importante della vita di qualunque uomo. Essere consapevole del fatto che gli errori provocano dolore. Se invece di rotolare avesse alzato la spada non sarebbe stato ferito. "Il ragazzo ha già sedici anni. Se gli insegno a combattere con la spada è perché presto ne avrà bisogno. Il regno deve espandersi a sud e alla fine dell'inverno il nuovo re convocherà signori e cavalieri". Arlena cercò di intervenire ma Jimeno alzò una mano per fermarla. "So cosa stai per dire: che se il re viene soprannominato 'il Monaco' non sarà poi così ansioso di andare in guerra. Ma io ti dico, donna, che un re deve essere guerriero, che lo voglia o no; e deve sapere che, se non attacca, verrà attaccato. Avrà bisogno di giovani come il nostro Alfonso per farlo e io non permetterò che venga chiamato alle armi senza sapere come si fa ad impugnarle".

      Arlena fece segno di no con la testa. I suoi occhi castani erano fissi sul marito.

      "Non era quello che volevo dire" replicò. "Dico solo che sbagli a pensare che don Yéquera andrà in guerra con il nuovo re. Quel vecchio è malato, presto perderà di nuovo la ragione e nominerà erede

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