Nel Segno Del Leone. Stefano Vignaroli

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Nel Segno Del Leone - Stefano Vignaroli

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notte di metà Novembre e il paesaggio circostante, illuminato dalla luna e sovrastato dalle sagome delle montagne, era davvero suggestivo. Dalla finestra, Francesco Maria poteva gettare lo sguardo sulla darsena sottostante, un ampio piazzale dalla forma di quadrato irregolare, delimitato dalle mura del castello e invaso dalle acque del lago. Attraverso un’apertura della cinta muraria, imbarcazioni anche di una certa stazza potevano trovare rifugio sicuro all’interno. La darsena era il luogo di stanza per la flotta scaligera, una flotta che difficilmente avrebbe visto il mare aperto, considerando che il lago non aveva emissari navigabili comunicanti con le rive dell’Adriatico. Solo attraverso una serie di complicate manovre lungo canali d’acqua artificiali e campi allagati le imbarcazioni potevano essere trasferite alla grande darsena presso la Cittadella armata della città di Mantova. Da qui, attraverso il Mincio, si poteva poi raggiungere con facilità il grande fiume Po, l’antico Eridano, e alfine navigare verso i territori Veneziani e verso il Mare Adriatico.

      Guardando oltre le mura di settentrione, Francesco Maria, al momento, poteva osservare solo placide acque, punteggiate qua e là di scafi, e baluardi montuosi, le cui cime avevano già cominciato a ricoprirsi della prima neve. Ma il nemico poteva comparire all’improvviso, da un momento all’altro, e il Duca non era contento che sua moglie Eleonora e il suo seguito fossero lì. Sì, da un lato era felice di poter godere della sua compagnia e degli incontri amorosi come quello appena conclusosi, ma dall’altro temeva per la sua incolumità. Erano passati quasi vent’anni da quando si erano sposati. Certo, erano solo due ragazzini quindicenni al tempo del matrimonio, un matrimonio politico che aveva rafforzato l’alleanza tra le famiglie Urbinate e Mantovana, ma le occasioni di stare insieme erano state davvero poche. Lei a Mantova, alla corte dei Gonzaga, e lui nelle Marche a combattere e combattere e combattere. Il primo figlio, Guidobaldo, che aveva ora nove anni, era arrivato dopo quasi due lustri dal giorno delle nozze, e quegli ultimi due mesi erano stati il primo vero periodo in cui Francesco Maria aveva potuto godere della sua vicinanza. Dal momento che la famiglia era riunita, si poteva anche pensare di mettere in conto qualche altro figlio, magari qualche femmina, in modo da nulla togliere al suo primogenito Guidobaldo. Ma sembrava che, nonostante i frequenti incontri amorosi degli ultimi tempi, Eleonora non accennasse a rimanere incinta. Che fosse ormai troppo anziana per procreare ancora? Ma no! In fin dei conti aveva trentatre anni, non era più una ragazzina, ma era di certo ancora in età fertile. In tutto questo, il cuore gli suggeriva da un lato di tenere la moglie accanto a sé, per poter godere del suo amore e della sua presenza, dall’altro di rispedirla a Mantova per proteggerla dagli orrori di un’eventuale battaglia contro i famigerati Lanzichenecchi. Oltre tutto, era giunta proprio in quei giorni la notizia della morte del Papa Adriano VI, che era stato prontamente sostituito al soglio pontificio da Giulio De’ Medici, con il nome di Clemente VII. Non che fosse un evento inaspettato. Francesco Maria aveva previsto questo e i suoi emissari avevano lavorato per stringere patti con il Medici, ancor prima che fosse stato eletto Papa. Ma quello che lo preoccupava, e per cui non riusciva a dormire la notte, neanche dopo un appagante incontro con la bella Eleonora, era come avrebbe reagito Carlo V alla nuova situazione. Si sarebbe mosso, certo si sarebbe mosso su più fronti, in maniera ufficiale contro la Francia di Francesco I Valoise, contro il suo nemico di sempre, in maniera meno ufficiale facendo dilagare i Lanzichenecchi nell’Italia Settentrionale al fine di soggiogare Milano e mirare a Firenze e Roma, per riunire tutti i territori italiani, oltre quelli già posseduti di Napoli, Sicilia e Sardegna, sotto l’unica corona imperiale. Non sarebbe stato facile impedire all’esercito germanico, una volta spianata la strada dai Lanzichenecchi, di raggiungere Roma, metterla a ferro e fuoco e arrivare alfine alla città di Napoli, alleata di Carlo V. C’era solo da sperare nel valore e nell’intraprendenza di Giovanni Ludovico De’ Medici. E del suo uomo, che stava aspettando con ansia di giorno in giorno, il suo fido Marchese dell’Alto Montefeltro. A interrompere lo scorrere dei pensieri di Francesco Maria fu l’avvistamento della sagoma di un’enorme imbarcazione, un trealberi battente bandiera della Repubblica Serenissima, che dalle acque del lago reclamava l’apertura della porta d’accesso alla darsena. Mentre le guardie, dal camminamento della ronda, mettevano in atto la serie di complicate manovre che avrebbero permesso l’apertura della porta, il Duca si rese conto che, accanto allo stendardo raffigurante il leone di San Marco, disteso e con il classico libro aperto tra le zampe, ve ne era un altro più piccolo su cui campeggiava un leone rampante coronato. Era stato grazie ai raggi della luna che era riuscito a distinguere i disegni delle bandiere pur nel buio della notte. Il suo cuore era finalmente più sollevato. Quella bandiera era il segnale che aveva convenuto con i suoi uomini. Stava arrivando il Marchese Franciolino Franciolini, o meglio, il suo più fidato Capitano d’armi, Andrea Franciolini da Jesi. Col cuore in gola, si terminò di rivestire e scese in fretta le scale, per raggiungere un ampio salone e disporsi in impaziente attesa. Terminate le manovre di attracco, chi scendeva dalle imbarcazioni, doveva per forza entrare in quella stanza. Il Duca fece chiamare alcuni domestici, che provvidero a imbandire la tavola al fine di accogliere a dovere i nuovi arrivati. Anche se l’ora era tarda, dopo un lungo viaggio, trovare di che rifocillarsi era di certo gradito a chiunque.

      I primi a sbarcare furono i servitori, che provvidero ad accatastare sul molo bauli ed effetti personali dei nobili guerrieri che avevano accompagnato in navigazione. La servitù del castello si precipitò fuori, sia per trasferire i bagagli di ognuno nelle stanze già assegnategli, sia per indirizzare i servi appena sbarcati verso le ali del castello loro riservate, affinché potessero rifocillarsi, riposarsi e, se avessero voluto, approfittare della compagnia di qualche sgualdrina. Subito appresso scesero a terra i marinai, che furono tosto indirizzati verso le aperture che davano accesso al centro abitato di Sirmione, sul lato meridionale delle mura della darsena. Essi non vedevano l’ora di raggiungere le bettole, per banchettare, bere vino e adescare qualche bella paesana. Le donne delle terre Venete e Lombarde erano infatti rinomate in tutta la penisola per essere amanti appassionate e sempre disponibili. E poi parlavano con quell’idioma cantilenante che avrebbe aperto il cuore anche al più burbero dei marinai. E il tutto per pochi denari, molto meno di quello che si era abituati a pagare in altre zone per i favori sessuali di certe donzelle.

      Gli ultimi a scendere dalla grande imbarcazione furono i nobili guerrieri, ognuno scortato dai propri attendenti. Uno dopo l’altro, varcavano la soglia dell’ampio salone dove venivano accolti dal Duca Della Rovere, che li invitava a congedare i sottoposti e sedersi alla tavola imbandita. Presto sarebbe stata festa, il cibo non sarebbe certo mancato e il vino sarebbe scorso a fiumi. A un cenno del Duca, alcune ancelle dalle colorate vesti trasparenti, che nulla lasciavano all’immaginazione, iniziarono a danzare sinuosamente su un lato della sala, al ritmo di una nenia richiamante atmosfere esotiche. Donne prese prigioniere e rese schiave durante le campagne della Serenissima contro l’impero ottomano. Donne che provenivano dalle terre del Vicino Oriente e che sapevano far danzare il loro ventre in maniera indipendente dal resto del corpo. A un secondo cenno del Duca, le ragazze si liberarono delle tuniche colorate e mantennero indosso solo minuscoli costumi a coprire seni e pube. La musica cambiò e le giovani ancelle, una più bella dell’altra, una più sensuale dell’altra, iniziarono a esibirsi nella provocante danza del ventre. Intanto i servi riversavano sopra la tavola imbandita ogni ben di dio, dai pasticci di lepre, all’arrosto di cinghiale, dalla selvaggina in agrodolce, ai conigli in salmì, alle verdure dai colori variegati, ai brodi di pollo e di manzo aromatizzati alle spezie. Le brocche di vino non facevano in tempo a fare la loro comparsa in tavola che già dovevano essere sostituite con altre piene.

      Francesco Maria passava in rassegna i visi dei suoi ospiti. Il Duca di Orvieto, con una coscia di pollo in mano e un boccale di vino nell’altra, si era già avvicinato a una delle danzatrici, lanciando baci con le labbra unte in direzione di lei. Quella, per tutta risposta, si era liberata della parte superiore del costume ed era rimasta a seno nudo, continuando la danza in maniera ancor più provocante. Il Marchese di Villamarina, dal canto suo si era accomodato al desco, con la seria intenzione di mangiare e bere a sazietà, quasi infischiandosene dello spettacolo di danza. Scuoteva però la testa al ritmo della musica. Messer Vittorio dei Gherardeschi, Conte della Caccia e Signore delle terre di Polverigi, si guardava intorno un po’ smarrito, come se tutto quello che stava accadendo nel salone non lo riguardasse affatto. Si avvicinò a Francesco Maria, lo salutò con rispetto e chiese di essere accompagnato nei suoi alloggi, in quanto era molto

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