Nel Segno Del Leone. Stefano Vignaroli

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Nel Segno Del Leone - Stefano Vignaroli

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marinaresco, erano del tutto incomprensibili ad Andrea.

      Mollare l’ancora – Ritirare le gomene – Cazzare la randa – Mollare il pappafico – Issare le vele di trinchetto, erano tutti comandi di cui non comprendeva nel modo più assoluto il significato. In ogni caso, poteva osservare come, a ogni comando del Capitano da Mar, l’equipaggio si muovesse in maniera veloce e precisa, senza alcuna incertezza. In breve, il galeone si distaccò dal molo e prese il largo, iniziando la navigazione verso nord, con un bel vento di scirocco che gonfiava le vele al massimo. Il Foscari teneva ben saldo il timone in mano e continuava a spiegare ad Andrea ciò che stava facendo.

      «Il Mare Adriatico è un mare chiuso e anche piuttosto stretto tra le sponde italiane e quelle della Dalmazia. E quindi è abbastanza sicuro. È difficile che scoppino tempeste improvvise, come si incontrano quando si attraversa l’oceano per raggiungere il Nuovo Mondo. Ma comunque non è da sottovalutare il fatto che a volte il vento gira e diventa pericoloso. Il Garbino, il vento che spira da terra, può sollevare il mare e provocare mareggiate anche imponenti. In più esso rende faticoso governare la nave, in quanto spinge le imbarcazioni verso il largo. Come puoi vedere, noi cerchiamo sempre di navigare piuttosto al largo per evitare le secche, ma sempre in vista della costa, cosicché non perdiamo mai la rotta. Il Garbino ti può fregare, facendoti perdere di vista la linea costiera e quindi disorientando i navigatori, in particolar modo quando il cielo è nuvoloso e non ci si può orientare grazie al sole e alle stelle. L’altro vento che temiamo noi marinai è la bora, il Buriàn, che porta neve e gelo, e spira soprattutto nella stagione invernale. La bora a volte è così forte, da poter spazzar via tutto ciò che trova, compresi i marinai che si trovano sul ponte e che, se finiscono nelle acque gelide, hanno poche speranze di poter sopravvivere.»

      «Mio caro Tommaso», lo interruppe Andrea, che ormai aveva preso confidenza col suo nuovo amico. «Ti devo confessare che io sono molto timorato del mare. Non so neanche nuotare e ho avuto una bruttissima esperienza lo scorso anno al largo di Senigallia. Quindi, preferirei che tu evitassi di raccontarmi certi particolari. Già mi hai fatto venire i brividi. Se continui così, andrò in preda alla nausea e allora saranno dolori per il resto della navigazione. Oggi invece posso vedere una bella giornata, il vento che ci sta carezzando è tiepido e gradevole, e questa nave è talmente stabile che non avverto alcun malessere. Pertanto, lasciami godere questo viaggio, e raccontami magari delle tue imprese di guerriero. So che hai combattuto contro i Turchi in terra Dalmata… Ma, quella che vedo là verso la riva è la sagoma della Rocca Roveresca? Siamo già giunti a Senigallia?»

      «La nave è veloce e abbiamo il vento favorevole. Sì, siamo già giunti al largo di Senigallia. E visto che hai parlato di Turchi, tieniti pronto a incontrarli, perché queste acque sono infestate dai pirati del Sultano Sèlim.»

      «Lo so bene. Ah, se riuscissi a fargliela pagare per quello che mi hanno fatto perdere un anno fa! Due dei miei migliori amici hanno perso la vita nello scontro con quei bastardi infedeli. E io me la sono cavata per un soffio.»

      «Ottimo, mio caro Franciolino. Allora, se ci troveremo a doverli combattere, mentre io governerò la nave, lascerò a te l’onore di dare gli ordini a cannonieri e archibugieri. Ora ti spiegherò come.»

      La navigazione proseguì tranquilla fino a pomeriggio inoltrato. Il Capitano Foscari stava per predisporre il galeone ad attraccare al porto di Rimini per trascorrere la nottata, quando una vedetta, dalla sua postazione in cima all’albero più alto, gridò: «Nave pirata a tribordo! Galeone battente bandiera Turca, in assetto di battaglia.»

      «È Selìm!», sussurrò Andrea al Capitano Foscari, cominciando già a provare una certa eccitazione all’idea della tenzone.

      Il Capitano da Mar gridò alcuni ordini in gergo marinaresco. Andrea non ci capiva nulla, ma poté di nuovo ammirare come, a ogni comando, l’equipaggio della nave si muovesse in perfetta sincronia per assecondare il volere del comandante. In pochi istanti, vennero sollevati i pannelli metallici protettivi del lato destro della nave, le bocche da fuoco furono caricate e gli artificieri si misero in posizione di combattimento. Gli archibugieri, invece, caricate le loro armi, si spostarono sul lato sinistro del galeone, in prossimità delle mura di babordo.

      «Sarà tuo l’onore di ordinare di fare fuoco», disse il Foscari, rivolto ad Andrea. «Ma non prima che il nemico abbia fatto la prima mossa!»

      «Lasciamo che i pirati ci attacchino? Non è imprudente?»

      «Vedrai!»

      Il colloquio tra i due fu bruscamente interrotto dall’attacco nemico. Una gragnola di palle incendiarie partì dal vascello turco. Molte piovvero in acqua, spegnendosi in una nube di vapore e spruzzi d’acqua salata, a diversi piedi di distanza dalla nave veneziana. Alcune palle colpirono i pannelli metallici, e anche queste caddero in mare, senza procurare danno alcuno allo scafo. Andrea si sentì a un certo punto investito da uno zampillo di acqua tiepida, sollevato da una delle palle incendiarie caduta assai vicino al ponte di comando. Bagnato come un pulcino si preparò a ordinare di rispondere al fuoco. Gli artificieri avevano caricato i cannoni con palle esplosive. Andrea ordinò di accendere le micce, mentre il suo amico Tommaso predisponeva la manovra successiva.

      «Fuoco a volontà! Non diamo loro la possibilità di aggiustare il tiro», e cercò un solido appiglio per reggersi forte, prevedendo il rinculo dovuto alle esplosioni contemporanee di almeno quaranta cannoni.

      Ma, con sua somma meraviglia, vide partire i colpi, accompagnati da nuvole di fumo in corrispondenza delle bocche da fuoco, senza che la stabilità del galeone fosse intaccata più di tanto. Certo, un po’ la nave iniziò a oscillare e la veloce manovra ordinata dal Capitano subito dopo peggiorò non di poco le condizioni dello stomaco di Andrea. Ma doveva resistere. Non poteva farsi prendere dal mal di mare. La nave puntava ora veloce la prua verso il galeone turco. Erano state ammainate le vele, e ci si muoveva solo a forza di remi. Infatti la manovra doveva essere precisa, non ci si poteva affidare ai capricci del vento. Due ordini di vogatori per lato potevano spingere la nave alla velocità voluta in ogni istante dal capitano, per il tramite del maestro dei rematori, chiamato “sottocomito”. I proiettili esplosivi avevano fatto il loro dovere. Avevano colpito il trealberi turco in più punti, provocando gravi danni. L’albero maestro era stato abbattuto e diverse falle erano state aperte sullo scafo, che si stava ormai inclinando sul fianco destro. I pirati stavano calando le piccole imbarcazioni da arrembaggio sul lato opposto, verso il mare aperto, sia per abbandonare la nave che stava per affondare, sia perché non si davano mai per vinti e si sarebbero preparati all’arrembaggio della nave veneziana. Sia Andrea che Tommaso De’ Foscari sapevano bene che la religione di quei bastardi insegnava loro che morire in battaglia significava essere assunti in gloria dal loro Dio. Nessuno di loro si sarebbe mai arreso. Avrebbero combattuto fino a morire tutti, ma se un solo manipolo di quegli spietati pirati fosse riuscito a salire a bordo, diversi uomini avrebbero perso la vita. Certo, ben presto i Turchi sarebbero stati sopraffatti, ma essi sarebbero comunque riusciti a fare numerose vittime. E Tommaso non avrebbe voluto perdere neanche uno dei suoi uomini. Pertanto la manovra doveva essere precisa. Guidò la nave ad aggirare il galeone turco, in modo di trovarsi tra esso e le barchette dei pirati. Andrea poté a questo punto rendersi conto di quanto micidiale fosse la nuova arma chiamata archibugio. I cinquanta archibugieri spararono all’unisono contro le piccole imbarcazioni all’ordine gridato dal Capitano Franciolini, giusto nel momento in cui il Capitano da Mar gli fece il cenno convenuto. Gli uomini colpiti dalle palle degli archibugi venivano decimati come mosche: teste che si spappolavano, corpi che venivano proiettati in acqua come fantocci di pezza, gambe e braccia che venivano strappate da tronchi che rimanevano per breve tempo ancora agonizzanti, per poi morire dissanguati. Mentre gli archibugieri caricavano di nuovo le armi, i pirati rimasti in vita si gettarono in acqua per cercare di sottrarsi al tiro. Ma la seconda raffica non fu meno distruttiva della prima. Fu ordinato di sparare anche qualche palla esplosiva con i cannoni, in modo di affondare le scialuppe dei turchi. Qualche freccia sibilò sopra le teste di Andrea e Tommaso, ma

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