L'Eredità Perduta. Robert Blake

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L'Eredità Perduta - Robert Blake

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solo curiosi. Ma guardali bene, alla minima disattenzione, ci ruberanno tutti i bagagli.»

      Ci fermammo sulla riva di un piccolo ruscello. Quando i portatori tentarono di attraversarlo, l'acqua li sommerse fino al collo. Dovemmo scaricare i bagagli dai muli e portare i fagotti sulla testa per evitare che si bagnassero.

      «Fate attenzione, ci sono alligatori in questa zona» avvisò la guida.

      Sentendo queste parole, accelerammo il passo. Fortunatamente la corrente non era troppo forte in quel tratto.

      «Avete visto?» commentò James, indicando l'altra riva. «Non avevo mai visto piante di simili dimensioni.»

      «Sono piante acquatiche» aggiunse Esteban. «Possono arrivare a misurare più di un metro di diametro.»

      Raggiunta l'altra sponda attraversammo una zona paludosa e il ritmo rallentò ancora di più. Quel viaggio stava diventando un vero incubo.

      James lasciò la guida per un momento e si avvicinò al nostro fianco per sussurrarmi all'orecchio che non dovevamo staccarci dal gruppo. Ci stavano osservando da molto tempo.

      «Chi ci segue?» chiesi allarmata, guardando in tutte le direzioni.

      «Penso che facciano parte di qualche tribù. Mantieni la calma. Se avessero voluto attaccarci lo avrebbero già fatto.»

      In quell'occasione aveva ragione. Ci stavano osservando da un bel po' fino a quando non attraversammo il loro territorio.

      Le notti erano ugualmente complicate. Riuscivamo a malapena a dormire. Solo un buon fuoco teneva lontani serpenti, scorpioni e, ancora più preoccupante, la vicinanza di qualche puma.

      Una sera ci accampammo vicino ad una piccola grotta rocciosa e quella notte iniziai ad ammalarmi. La febbre non smetteva di salire e il chinino che mi iniettarono mi fece effetto a malapena. La mattina seguente notai un piccolo miglioramento e decisi di continuare il viaggio. Ma un paio d'ore dopo iniziai a sentire le vertigini, la fronte mi bruciava proprio come la sera precedente e finii per svenire ai piedi del professore.

      È l'ultima cosa che ricordo finché non mi svegliai due giorni dopo in una piccola capanna di giunchi. Quando aprii gli occhi mi girava ancora la testa, mi voltai a destra e vidi come il professore sorrideva.

      «Sembra che la febbre sia diminuita. Ti senti meglio?»

      «Sono molto stanca. Ma la mia fronte non scotta.»

      «È un buon segno» rispose, posando una mano sulla mia fronte. «È proprio quello che ha detto lo sciamano.»

      «Sciamano?» ripetei sorpresa.

      «Siamo stati in un villaggio indigeno per due giorni. Era l'unico posto dove potevano curarti.»

      «Ma di cosa sta parlando?»

      «Hai contratto la malaria» rispose solennemente.

      «È tutta colpa di Henson. Dovevamo prendere l'altra strada. Non è nemmeno presente quando si ha più bisogno di lui.»

      «Questo non è vero, Margaret. Ha passato gli ultimi due giorni senza mai separarsi da te. È riuscito a malapena a dormire.»

      Non mi aspettavo di sentire quelle parole e rimasi in silenzio.

      «Se non ti avesse portata al villaggio, non saresti sopravvissuta un altro giorno. Dovreste appianare le vostre divergenze.»

      «Ma lui non ascolta nessuno. Vuole sempre avere ragione. È insopportabile.»

      «Sta solo facendo il suo lavoro. Se ti mettessi al suo posto lo capiresti meglio.»

      In quel momento James entrò nella porta sussurrando una canzone …

      «Vedo che stai meglio.»

      «Sono guarita» assicurai abbozzando un lieve sorriso.

      «Ti porto la colazione. Un po' di frutta fresca e del tè. Lo sciamano mi ha assicurato che con questa miscela di erbe e una settimana di riposo ti sentirai come nuova.»

      «Non possiamo aspettare una settimana!» esclamai allarmata. «I canadesi saranno in vantaggio su di noi e la spedizione precipiterà.»

      «Dimenticali. C'è ancora molta strada da fare.»

      «Volevo ringraziarti per esserti preso cura di me in questi giorni.»

      «Non devi farlo. È stato un piacere.»

      «Potresti portarmi il mio bagaglio? Devo essere orrenda.»

      «Come desideri, Maggie» rispose con un ampio sorriso. «Anche se non ne hai bisogno.»

      Era la prima volta che pronunciava quelle parole ma lo faceva con tanta tenerezza che non riuscii a rispondergli. Da quella mattina la mia opinione su di lui cominciò a cambiare.

      Due giorni dopo riprendemmo la marcia. I primi giorni viaggiavo a dorso di mulo, cercando di non essere un peso per il resto del gruppo. Mi sentivo esausta.

      Un pomeriggio finalmente avvistammo le aspre montagne all'orizzonte, ci lasciammo alle spalle le ultime vestigia della foresta amazzonica ed entrammo nell'Altopiano. Dovemmo attraversare alte montagne con profonde vallate dove la vegetazione cresceva con difficoltà.

      Il percorso era segnato da piccoli villaggi dove la maggior parte della popolazione era impegnata nelle miniere. L'afa e l'umidità lasciarono il posto ad un caldo secco durante il giorno e un freddo intenso di notte. A poco a poco notai come la mia salute migliorasse a passi da gigante.

      Una fredda mattina arrivammo a Potosí, l'epicentro minerario di quella regione. Accanto alla miniera, gli spagnoli avevano costruito una città per sfruttare i giacimenti d'argento. Gli indigeni lavoravano per un salario minimo in condizioni così disumane che molti di loro non riuscivano a sopravvivere. Il servizio nelle miniere durava un anno e gli era stato vietato di tornare a lavorare al loro interno fino a quando non ne erano trascorsi altri sette, ma molti indios si facevamo assumere di nuovo come lavoratori liberi.

      Passammo oltre le case precarie dove vivevano i minatori con le loro famiglie e attraversammo il centro della città. Quel posto era diventato un'area ricreativa piena di mense e bordelli notturni dove i minatori avrebbero speso i loro soldi dopo una lunga ed estenuante giornata di lavoro. Ci saremmo fermati il tempo sufficiente per caricare le scorte e passare la notte.

      Quel pomeriggio James andò a fare acquisti. Il professore ed io restammo in una locanda di pulci e scarafaggi di cui preferisco non parlare. Dopo aver riposato per un po', il professore uscì a prendere aria mentre guardavo dalla finestra della mia stanza come ciò che chiamavano progresso aveva trafitto le pendici di una montagna lasciandola quasi vuota all'interno. Un forte odore di mercurio e zolfo mi colpì il viso e dovetti chiudere la finestra.

      Il professore era appoggiato al lungo ponte che attraversa il fiume e stava fumando la pipa quando, all'improvviso, apparvero alcuni ragazzi che lo afferrarono di colpo e lo trascinarono in fondo alla strada. Provai ad urlare, ma avevo così paura che non ero in grado di articolare una parola. Rimasi in un angolo a piangere fino alla comparsa di James.

      «Lo hanno rapito in pieno giorno?»

      «Non c'erano quasi nessuno per strada» risposi angosciata.

      «Che

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