La carità del prossimo. Bersezio Vittorio

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La carità del prossimo - Bersezio Vittorio

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il torto marcio; se il lavoro non venne; se mio zio il droghiere non volle mai più perdonarmi; se mia moglie si ostinò a volermi far padre quattro volte; e se per soprammercato le sciagure la fecero dispettosa e peggio?…

      Ma qui sarà meglio che, senz'aspettar altro, io entri a darvi maggiori e più intime informazioni di questo povero diavolo.

      Attenti bene!

       Indice

      Suo padre era Regio Liquidatore, e il fratello di suo padre teneva fondaco di droghe e robe vive, come dice la lingua bara delle insegne. Papà Vanardi avvezzo a liquidare gli averi e i debiti altrui, liquidò anche le sostanze proprie; e un bel giorno si trovò al verde, poco meglio di quella condizione in cui si trovava il figliuolo nel momento in cui comincia questo racconto. Suo fratello il droghiere, per contro, aveva visto prosperare benissimo il suo commercio, ed era riuscito a mettere in disparte un capitale da fare invidia ad un banchiere e ad un impresario Egli voleva bene a suo fratello, era il padrino del piccolo Antonio, e il pepe e la cannella non gli avevano guastato il cuore, Raccolse in casa sua fratello, cognata e nipote, e disse gravemente pizzicando la gota rubiconda di quest'ultimo:

      —Alla sorte di questo birboncello ci penserò io. Ne faremo qualche cosa di grosso, lasciate stare… Antoniuccio, che cosa vuoi tu diventare?

      Il ragazzo che vedeva quasi tutti i giorni sfilare sotto le finestre dell'appartamento paterno i reggimenti della guarnigione che andavano in piazza d'armi e che restava ammirato alla vista di quel bell'uomo grande e grosso che camminava primo di tutti con una famosa mazza in mano, e nelle occasioni solenni un gran pennacchio dritto in sul capo, il ragazzo rispose franco, levandosi in punta di piedi ed ingrossando la voce:

      —Io voglio diventare tamburro maggiore.

      Ma l'ambizione dello zio padrino non fu soddisfatta da queste aspirazioni d'Antoniuccio alla grandezza. Meglio che il bastone a grosso pome d'argento gliene parve il codice a legatura di pelle: meglio che la montura e la sciabola, la toga nera ed il bavero, e disse al nipote in tono di sentenza irrevocabile:

      —Tu non sarai tamburo, ma avvocato.

      Antonio vi si rassegnò.

      All'Università s'incontrò e strinse amicizia con una frotta di capi ameni che di studiare la legale avevano tanta voglia come di intisichire, dei quali per ora non occorre nominarvi che quel Giovanni Selva, di cui già avete sentito fare un cenno lo speziale Agapito, e del quale vi avrò da parlare più a dilungo fra poco.

      Di questi suoi amici l'uno voleva essere un nuovo Rossini, l'altro un Ariosto, il terzo un Alfieri: Vanardi—o fosse perchè il posto di artista non era ancora occupato, o i quadrilateri dipinti a più colori, che la sfoggiavano sopra l'uscio del fondaco dello zio esercitassero un influsso sull'incertezza della sua mente—Vanardi si cacciò in capo di voler essere Rafaello. Si mise a scarabocchiare di faccie impossibili e di figure mostruose tutte le copertine de' suoi trattati, tutte le pagine de' suoi cartolari, tutti i frontispizi de' suoi libri. Mentre i diligenti fra i suoi compagni scrivevano le spiegazioni della scienza legale che cascavano dalla bocca sapiente del professore, egli schizzava a tratti di penna la caricatura della parrucca, del naso, del berretto dottorale, della faccia ingrugnata dell'insegnante; mentre avrebbe dovuto studiare il Fabro e svolgere il Digesto, egli studiava il nudo e stringeva più o meno dimestica conoscenza colle modelle. Un orrore di condotta da mettere sulle furie anche il più zuccherato di tutti gli zii dell'uno e dell'altro emisfero.

      In questa guisa il nostro Antonio avanzò sì bene che giunse a sbozzare in men che non si dice una parodia di figura e non potè andar oltre al terzo anno del corso di leggi. Rimandato tante volte di seguito, quante bastava per non poter più presentarsi agli esami, dovette di necessità raccogliere tutto il suo coraggio per dichiarare allo zio padrino che d'avere un nipote avvocato non se ne faceva più niente. Figuratevi la collera del buon droghiere, il quale a quel tempo era rimasto unico dei parenti d'Antonio e riuniva in sè tutte le autorità della famiglia!

      Dopo averlo strapazzato una buona ora, chiese finalmente al nipote:

      —Ebbene, disgraziato, e che vuoi tu fare al presente?

      Antonio che aveva ricevuta l'intemerata colla testa bassa e colle sembianze raumiliate d'un peccatore ravveduto, alzò la faccia, esitò un pochino poi disse colla maggior fermezza che lasciava alla sua voce il cuore che gli batteva forte forte:

      —Voglio farmi pittore.

      Lo zio fece un trasalto che avreste detto di spavento, quale avrebbe potuto avere se si fosse trovato inopinatamente innanzi ad un matto.

      —Pittore! che è ciò? Che vuol dir questa bizzaria? Pittore!

       Sciagurataccio! mi faresti dire qualche sproposito.

      Ma il nipote, il quale, impegnata una volta la lotta, aveva sentito accrescersi un poco il coraggio, riprese più franco:

      —Sì, signor zio. Sono ammesso alla scuola dell'Accademia. I professori sono contenti dei miei progressi. (E' si vantava, lo scellerato!) Diventerò un artista di vaglia, illustrerò il nostro nome e…

      —Un corno! esclamò lo zio furibondo… Poichè tu non sei capace di spacciar eloquenza alla ringhiera del foro, spaccerai pepe e cannella al minuto al banco della mia bottega. Sarai droghiere come tuo zio.

      Antonio volle opporsi a questa fatale sentenza, ma il vecchio fu irremovibile. La lotta durò per un poco. Il padrino era ostinato, ma il figlioccio nella sua timidità era testardo. Un bel dì, quest'ultimo scappò di casa coi suoi colori, coi suoi pennelli, co' suoi rotoli di tela, colle sue cartelle, colla sua tavolozza, colla sua cassetta, colla sua povertà e col suo buon umore, e piantò le tende in una soffitta dove non gli mancavano la luce, la vista del cielo e quella di tutti i comignoli dei camini delle case.

      Lo zio gli assegnò quindici giorni di tempo per tornare all'ovile. Passato quest'intervallo, gli mandò un involto con dentrovi alcuni biglietti di banco ed una lettera per la quale lo ammoniva che l'aveva cancellato affatto dal suo cuore, che qualunque vicenda gli capitasse non voleva più saperne di niente, che per lui era d'ora in avanti come se non avesse avuto mai nè figlioccio nè nipote.

      Antonio rimase afflitto della lettera, perchè in realtà allo zio voleva bene; fu consolato dai fogli di valore, perocchè gli venivano più che opportuni; e non disperò di ottenere un dì o l'altro il perdono del padrino, massime quando sarebbe stato celebre e ricco per opera del suo pennello, cosa che secondo lui non solo non poteva mancare, ma non doveva nemmeno tardare di molto.

      Si presentò due o tre volte al fondaco dello zio per rappaciarsi con esso; ma l'inesorabile vecchio, seduto sempre al suo scrittoio, dietro un paravento a vetri, sporgeva in fuori la testa coperta dell'eterno berretto di seta nera, guardava chi fosse entrato; vedendo il nipote, gettava due sbruffi di tosse, s'alzava da sedere, e senza far motto, additava con tacita eloquenza di gesto la porta per cui si doveva uscire; sopra la quale pompeggiavano al di fuori nella strada sette quadrilateri, i cui rispettivi colori erano rosso, turchino, giallo, verde, arancio, violetto e terra d'Italia.

      Antonio chinava rassegnatamente il capo ed usciva; finchè si stancò della monotona ripetizione di questa scena muta, e non ci venne più.

      Però, di quando in quando, nelle occasioni solenni dell'anno, al Natale, alle tremende epoche in cui si ha da pagar

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