Il roccolo di Sant'Alipio. Caccianiga Antonio

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Il roccolo di Sant'Alipio - Caccianiga Antonio

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vita universitaria aveva però completata la loro educazione politica, e i giovani sempre più insofferenti del giogo austriaco, procuravano di apparecchiarsi ad una riscossa che potesse liberare il paese dal dominio straniero. E si raccoglievano in segreto fra loro, comunicandosi le idee, leggendo avidamente gli scritti di Mazzini, Balbo, Gioberti, D'Azeglio. Recitavano degli squarci delle tragedie di Niccolini, imparavano a memoria i versi di Giusti e Berchet, declamavano focosamente i più caldi capitoli dei romanzi di Guerrazzi, e apparecchiavano congiure e piani di rivoluzione, tenendo corrispondenze coi capi delle sêtte all'estero, e cogli affiliati delle società segrete italiane.

      All'autunno ritornando a Pieve di Cadore, animati da sentimenti patriottici, si raccoglievano nel roccolo di Sant'Alipio, ove comunicavano le speranze d'Italia a Isidoro Lorenzi che era il capo dei liberali cadorini, e il più fervente promotore della liberazione d'Italia sulle Alpi; il quale quantunque avesse oltrepassata la quarantina, conservava tutto il vigore della gioventù, e in quell'angolo romito delle montagne, che sfuggiva ad ogni sorveglianza, apparecchiava alacremente gli animi dei suoi compatriotti alla ferma volontà di emanciparsi dagli stranieri.

      Il roccolo di Sant'Alipio è una piccola proprietà destinata specialmente a prendere nelle reti gli uccelli che passano in quella stretta gola del Piave. È collocata nel fianco del Montericco, sotto i ruderi dell'antico castello di Pieve di Cadore, a pochi passi dal paese, ma in un sito recondito, quasi a picco sul torrente, nascosta a tutti gli sguardi in mezzo d'un bosco di larici, con un prospetto meraviglioso dei monti e delle selve che chiudono la vallata.

      È composta di una casetta di legno, e di un terreno coltivato con pittoresco disordine che forma una specie di oasi capricciosa di fiori e di frutta, d'erbe vagabonde e cereali che crescono confusamente in mezzo alle piante orticole ed agli alberi. Una pergola di carpini fiancheggia il precipizio e va a terminare in un gabinetto di verdura nascosto in fondo al roccolo, incantevole ridotto, circondato da panchine, e quasi sospeso sulle roccie a grandissima altezza, che Tiziano aveva denominato il nido di Montericco, e che veduto da lontano sembra effettivamente un nido d'aquila nascosto in una anfrattuosità inacessibile della montagna.

      Isidoro Lorenzi, il fortunato possessore di questo romitaggio, viveva colà con l'unica sua figlia Maria, con una vecchia serva, e con Turco, il suo cane da caccia. Vedovo da qualche anno aveva concentrato ogni suo affetto nella figlia, una bella e robusta ragazza con grandi occhi neri e capelli corvini, di soave fisonomia, che gli rammentava la cara compagna della sua vita, troppo presto perduta. Passionato cacciatore ed uccellatore, e grande ammiratore della natura, egli passava i giorni in quella solitudine, occupato a tendere le reti sul roccolo, a governare gli uccelli da richiamo, a coltivare ogni sorta di piante in un caos inestricabile che formava la sua delizia, e che sembrava un gigantesco canestro di piante coltivate collocato in mezzo di un bosco. E quando era stanco di correre e lavorare intorno alle sue colture, andava a sdraiarsi sull'erba, colla pipa in bocca, e Turco ai suoi piedi, e contemplava lungamente lo stupendo spettacolo che gli stava davanti, la pittoresca vallata del Piave fiancheggiata da monti boscosi, sparsa di paeselli biancheggianti alle falde di verdi colline, che finisce lontano lontano in una tinta azzurognola sfumata che si confonde col cielo. E non usciva dal suo ritiro che per vedere qualche amico, per parlare degli affari italiani, per comunicare delle notizie importanti a delle persone che aspettavano i suoi cenni, e obbedivano ai suoi ordini, o per battere i boschi e salire sui dirupi alle grandi caccie del camoscio, nelle più alte montagne. E tirava sempre sulle aquile, uccellaccio che aveva in odio a motivo di quella che portava due teste, e che sperava un giorno di accalappiare, per mandarla impagliata a qualche museo che doveva collocarla fra le bestie più nocive.

      Tiziano e Michele frequentavano il roccolo, entrandovi però sempre con molte precauzioni, per non essere veduti e non eccitare sospetti alla polizia, la quale doveva ignorare che in quella macchia di fiori e frutta si nascondevano i suoi nemici più acerrimi.

      Quando Isidoro era in casa, si mettevano in compagnia a fumare la pipa ed a ciarlare di politica al piede d'un albero; quando era uscito per recarsi alla caccia sulle montagne, andavano a far conversazione con Maria che era stata la compagna dei loro giuochi infantili, e che amavano fino dall'infanzia. Essa andava a lavorare d'ago nel gabinetto di verdura in capo alla pergola, nel nido di Montericco, e i giovani le facevano compagnia, e allora dimenticavano affatto la politica, giuocavano come fanciulli, e Michele raccontava a Maria delle storie impossibili, burlandosi poi della sua ingenua credulità, e facendola arrossire di vergogna della sua buona fede. Per vendicarsi, essa lo condannava a dipanare delle matasse intricate, ma egli allontanandosi a poco a poco colla matassa fra le mani, il filo diventava lungo, e quando si arrestava ad un intoppo la fanciulla era costretta di alzarsi, e avvicinarsi al fuggitivo facendo il gomitolo per giungere a distrigare il garbuglio; e ridevano di tutto. Talvolta Michele le narrava le burle degli studenti alle pattuglie notturne dei croati; le corde tese attraverso la via per farli incespicare, i mattoni appesi ai ferri sotto ai portici oscuri, che dato un allarme per far correre i soldati, sbattevano sui loro volti. Tiziano contemplava la natura, osservava gli abeti che si alzavano ritti sul monte opposto e fra i crepacci delle roccie scoscese, seguiva cogli occhi il volo delle farfalle, le danze degli insetti in un raggio di sole, un'ape che succhiava il nettare di un fiore sul margine di un precipizio. E se Michele andava a saccheggiare le frutta sugli alberi, Tiziano restava solo con Maria, le sedeva dirimpetto, la fissava lungamente, e taceva. Maria lavorava in silenzio, e allora si udiva il canto degli uccelletti di richiamo, lo stormire delle fronde, e il frastuono del sottoposto torrente che si frangeva nei sassi.

      E se talvolta rompevano quel silenzio era per ricordare la loro infanzia; e rammentavano con piacere quel tempo nel quale andavano a giuocare sul colle della Schipa insieme agli altri fanciulli. Michele era stato sempre turbolento, ma Tiziano proteggeva Maria dalle insidie dei furfantelli, e la difendeva arditamente dagl'insolenti, l'accompagnava se aveva paura, la sosteneva se dovevano arrampicarsi sull'erta, e dividevano insieme le merendine che le buone mamme avevano deposte nei loro cestelli.

      Nella stagione propizia Tiziano e Michele seguivano Isidoro sui monti, egli li addestrava alla caccia del camoscio, e li guidava con pratica sicurezza sulle cime più eccelse, giudicate inacessibili dagl'inesperti. Collo schioppo ad armacollo, le munizioni nei fiaschetti e la carniera del mestiere, muniti di punte alle scarpe, di bastoni ferrati e di corde, partivano da Pieve, seguiti da Fido e da Turco, che correvano su e giù per le rive, e accompagnati da Bartolo che apportava i viveri ed altre provvisioni, e andavano nelle montagne d'Auronzo, e attraversando il bosco di Sommadida rimontavano sino alle sorgenti dell'Ansiei arrestandosi all'osteria delle Alpi sul lago di Misurina ove mangiavano le trote eccellenti da Giacomo Croda, famoso cacciatore di camosci, che si univa alla loro compagnia, e tutti insieme salivano quei dirupi scoscesi, e non tornavano mai a casa senza una buona preda.

      Tiziano accanto al fuoco rammentava le vicende dell'ultima caccia, e per indicare il momento che aspettava il camoscio si metteva in agguato come avesse lo schioppo al viso, e simulava il colpo che aveva colpito l'animale mentre saltava un precipizio.

      Fido aveva capito benissimo che il padrone raccontava un'avventura di caccia, e lo stava ascoltando attentamente, colle orecchie tese, e dimenando la coda, mentre la mamma Maddalena serviva la minestra, e tutti si mettevano a tavola.

      Il desinare fu lieto. Tiziano seguitò per qualche tempo a raccontare le sue caccie, fino a che sior Antonio incominciò a parlare delle seghe, e dei menadàs[1], delle taglie e delle tavole, dei rulli dei zappoli e delle chiavi[2]. Maddalena manifestava alla Betta le sue opinioni sulle galline, e sulla produzione degli ovi. Bortolo faceva l'elogio della Nina, la cavalla di casa, assicurando i padroni che essa conosceva le ore senza bisogno d'orologio, e assai meglio dei ragazzi che vanno alla scuola, perchè ogni mattina, alle nove in punto, batteva le zampe e nitriva per domandare l'avena, mentre gli scolari dimenticando l'ora di scuola stavano ancora a scivolare sul ghiaccio.

      Finito il pranzo, e vuotata in gran parte la damigiana, sior Antonio riprese il suo posto sulle panche intorno al camino, e accese la sua pipa. Tiziano fece lo stesso. Bortolo aiutava sua

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