Il roccolo di Sant'Alipio. Caccianiga Antonio
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Frattanto Bortolo era ritornato colla Nina portando le prime notizie del fuggitivo, che era giunto felicemente in Auronzo. Per via non avevano incontrate persone sospette. Stavano sempre attenti guardando da ogni parte se vedessero spuntare l'elmetto dei gendarmi o se qualcuno li seguiva, o veniva ad incontrarli.
Prima di giungere in Auronzo si separarono, Michele volle entrare nel paese a piedi pei sentieri e i viottoli nascosti dietro le case mentre il suo compagno di viaggio riprendeva la strada di Pieve. Bortolo non sapeva altro, e tutto contento della sua impresa felicemente riuscita, fregava la Nina con due manate di paglia, e vedendola sfinita inzaccherata fino al ventre, e bagnata di sudore, procurava di consolarla con delle buone parole:
— Povera Nina, le diceva, ti darò una buona porzione di avena e crusca, e sarai contenta, e potrai riposarti al caldo.... e quella brutta gente non avrà il gusto di chiapparlo il nostro amico.... noi lo abbiamo salvato. Avessimo potuto salvare anche il nostro padrone!... mah! povero Tiziano.... Povero Tiziano!...
Fido accovacciato in un angolo della stalla stava ascoltando i discorsi del giovane, e avendo udito il nome del suo padrone assente, alzava gli occhi malinconici, e mandava un guaito doloroso.
Michele aveva un amico in Auronzo, nella cui casa poteva starsene al sicuro, apparecchiando la sua fuga in modo da farla riuscire, mentre la polizia lo cercava da ogni parte, e ne mandava i contrassegni al confine.
Da colà egli faceva avvertire segretamente Giacomo Croda del suo arrivo, e d'accordo con lui e con l'amico venne stabilito di cacciarsi nelle montagne del Tirolo e di attraversarle per recarsi nella Svizzera. Nel cuore dell'inverno l'impresa era assai faticosa, ma non impossibile per due intrepidi cacciatori di camosci, e specialmente colla guida di Giacomo il quale dall'osteria delle Alpi sul lago di Misurina conduceva i viaggiatori pedestri, tedeschi ed inglesi, sulle più eccelse cime dei monti, nei mesi estivi, e faceva anche il contrabbandiere in tutto il tempo dell'anno con inarrivabile destrezza.
Quando il tempo si mise al sereno passarono l'Ansiei, e ben muniti di provvisioni s'inoltrarono per un sentiero appena praticabile dalle capre. Varcarono montagne che parevano inaccessibili, costeggiando i precipizii alle falde di eccelse rupi che alzavano a perpendicolo le creste nude, frastagliate ed aguzze, come gigantesche muraglie diroccate, veri baluardi naturali dei confini d'Italia.
Attraversarono vallate boscose e profonde solitudini, ove non si udiva altro suono che il fragore dei torrenti, il sibilo del vento, e gli acuti stridi degli uccelli di rapina. Non traccia d'uomo in quei selvaggi deserti, ma una natura sublime che elevava lo spirito al di sopra della terra, e delle umane miserie. Rupi sopra rupi, accatastate, rotte dalle frane, frastagliate di boschi, cime nevose d'ardua salita, ove appena raggiunta la sommità si vedevano nuovi massi spaventosi che si dovevano superare quasi a perpendicolo, aggrappandosi colle mani ai magri virgulti che sporgevano dai crepacci. Ma quando avevano guadagnata la più eccelsa vetta della più alta montagna, e il loro sguardo dominava le cime sottoposte e l'immensa pianura che si stendeva fino ad una linea azzurra che indicava l'Adriatico, allora si credevano i padroni dell'universo, e non avevano più nulla a temere dalle tirannidi dei governi e dalle insidie degli uomini. Michele saliva sopra una roccia, faceva dei segni cabalistici in aria, e quando Giacomo Croda gli chiedeva delle spiegazioni, egli rispondeva:
— Maledico i tiranni, scaglio anatemi a tutti coloro che pretendono dominare in casa degli altri contro il diritto di natura. Verrà un giorno nel quale saranno sepolti dalla giustizia popolare, come quelle pietre che credevano di stare al sole per lungo corso di secoli, e che ora sono sepolte dalle valanghe e stanno ai nostri piedi.
Alla notte i due viandanti si riposavano nelle baite, capanne abbandonate dai pastori che all'inverno si ritirano nei villaggi o scendono alla pianura. Accendevano il fuoco con rami di abeti e di ginepri, cenavano tranquillamente intorno alla fiamma. Michele trovava eccellente ogni pasto, dichiarando che il pane nero delle carceri non avrebbe mai avuto l'onore di entrare nel suo stomaco. Poi accendevano le pipe, e ciarlavano fino alla comparsa del sonno. Allora si coricavano al suolo avvolti nelle loro coperte o sepolti sotto le foglie secche, se avevano la fortuna di trovarne in quei tugurî, e russavano fino al mattino.
Talvolta però il freddo era così acuto che tagliava il viso, toglieva il respiro, gelava le estremità, diventava pericoloso. Ma il pensiero della libertà rianimava il coraggio di Michele, il quale piuttosto di vivere nell'aria cupa e mefitica d'una prigione, preferiva di morire intirizzito sulle Alpi.
Talvolta potevano anche scendere in qualche villaggio, ed entrare in qualche capanna conosciuta da Giacomo, ove i contrabbandieri si davano la posta, e trovavano un rifugio sicuro. E colà poterono refocillarsi, dormire sopra un letto, e rinnovare le provvisioni. Vicino ai confini raddoppiarono le precauzioni e la vigilanza; e sovente nascosti dietro una roccia videro passare da lontano le guardie doganali che perlustravano i luoghi sospetti; ma uscirono sempre felicemente da ogni pericolo, e dopo molti giorni di marcie faticose attraverso le Alpi tirolesi, entrarono finalmente nel Cantone Ticino. Appena varcato il confine, Michele salutò con entusiasmo la Svizzera, e messosi in ginocchio volle baciare la terra della libertà.
Dopo d'essersi riposati qualche giorno si divisero. Michele consegnò a Giacomo alcune lettere per lo zio, per Sior Antonio e per l'amico d'Auronzo, e partì pel Piemonte. L'altro, fatte le sue provviste di tabacco e sigari, si unì a dei colleghi che avevano gli stessi motivi di lui per evitare le strade maestre, e ritornò in Cadore, dove consegnò le lettere ricevute.
Sior Antonio fu contento di sapere che Michele era giunto felicemente in paese libero, ma sentì doppiamente il dolore della prigionia di suo figlio, ed era grandemente meravigliato di non aver ancora ricevuto nessuna risposta da Venezia.
Finalmente dopo lunga aspettativa giunse un messo mandato a posta dai padroni il quale giustificò il motivo del loro silenzio. Avevano ricevuto la sua lettera, ma era sfuggita per miracolo alla sorveglianza della sospettosa polizia, e non era prudente di mandare per la posta delle comunicazioni segrete, perchè tutte le corrispondenze sospette venivano aperte, e potevano compromettere molte persone.
Sior Antonio corrugava la fronte e incrociava i sopracigli, poi coll'indice della destra toccandosi una dopo l'altra le dita della mano sinistra, aperta come un ventaglio, diceva:
— Violato il domicilio domestico; violato il segreto delle lettere; punito l'amore di patria come un delitto; arrestati i galantuomini; obbligati a fuggire dal paese quelli che non vogliono andare in prigione. — E qui cambiando mano, e coll'indice della sinistra, toccando successivamente le dita della destra, continuava: — la coscrizione manda gli italiani in Ungheria, gli ungheresi in Boemia, i boemi in Austria, gli austriaci in Croazia, i croati in Italia! ogni popolo è mandato dall'imperatore a ribadire le catene dei suoi vicini, e tutti si lasciano condurre come tante bestie a compiere i voleri di un uomo a proprio danno. Il denaro dei contribuenti parte per Vienna ad impinguare le case tedesche; tutti i capi d'ufficio sono mandati dall'Austria; è proibito a chi soffre di lamentarsi, sotto pena della galera; vietate le armi per difendersi.... ed avendo esaurite le dieci dita nell'enumerazione delle piaghe principali della patria, sior Antonio alzava ambe le mani in aria, e battendo i piedi in terra, gridava: — Calpestati e vilipesi in casa nostra!.... disprezzati dagli stranieri! questa è la nostra condizione.... e gli italiani hanno la viltà di tollerarla!...
Il messo correva a chiudere la finestra, e gli faceva cenno di tacere, di non commettere nuove imprudenze, ma quando sior Antonio aveva incrociati i sopracigli, non era facile calmarlo.
Alfine dovette starsi zitto, e lasciare che anche l'altro parlasse.
Costui gli disse che pur troppo i padroni