Il roccolo di Sant'Alipio. Caccianiga Antonio
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Читать онлайн книгу Il roccolo di Sant'Alipio - Caccianiga Antonio страница 9
È più facile immaginare che descrivere l'espressione del viso di sior Antonio a tale dolorosa sorpresa. Sbalordito, mutolo e quasi scemo, non sapeva più che pensare, gli pareva che le cose di questo mondo si fossero capovolte, tutti i galantuomini andavano in prigione ed erano obbligati di fuggire, e gli usurpatori, ossia i ladri, facevano da giudici, perchè gli stranieri gli parevano ladri in scala grande, introdotti con violenza in casa altrui.
Gli restava la lettera pel segretario, la quale gli servì ad ottenere il permesso di entrare in prigione per vedere suo figlio. Favore che lo umiliava, perchè gli veniva concesso da coloro che egli giudicava come i veri colpevoli, persecutori degli innocenti; come i veri turbatori dell'ordine sociale, che non avevano altro diritto di comandare che quello ottenuto dalla forza brutale; che li rendeva gli oppressori d'un paese che era stato il loro maestro di civiltà!.... La sua coscienza era la sola norma della sua ingenua politica, e gli pareva che il semplice buon senso dovesse essere la sola base del diritto, e andare al di sopra della ragione di Stato.
Quante lezioni di scaltra diplomazia gli dovettero inculcare i padroni per salvarlo dal pericolo d'essere arrestato anche lui, e messo in prigione insieme col figlio, perchè si ostinava a voler dire ai giudici apertamente e schiettamente quanto egli credeva fosse davvero giusto ed onesto; quando invece era tutto il contrario, perchè l'usurpazione era un diritto, la forza un'autorità, l'amore di patria una colpa, il desiderio di liberarla dall'oppressione un grave delitto di Stato! L'ipocrisia diventava una necessità, l'umiliazione davanti la potenza dei nemici una assoluta necessità, per salvare le vittime cadute nelle loro mani. Sior Antonio sbuffava, incrociava le sopracciglia, batteva i piedi, ma doveva piegarsi, se voleva vedere suo figlio, e non nuocergli.
Finalmente potè essere condotto alle carceri criminali, accompagnato da un impiegato che assistette all'intervista del detenuto con suo padre.
Ma quelle porte chiuse, quei catenacci, quelle chiavi, quell'aria uggiosa e ammuffita del carcere gli misero nelle ossa un ribrezzo che gli faceva tremare i ginocchi. Quale triste domicilio per un giovane avvezzo all'aria aperta e profumata delle montagne!
Il povero Tiziano era pallido, smunto, cogli occhi pesti, come un uomo sepolto vivo. Il padre ne fu desolato, lo abbracciò teneramente, gli teneva serrate le mani, aveva gli occhi gonfi di lagrime, e gli mancavano le parole.
Tiziano gli fece animo, gli chiese notizie di sua madre, di Maria, degli amici, del paese, di tutti di casa, compreso Fido, e con dei giri di parole procurò di sapere se Michele fosse salvo. Sior Antonio dapprima non capiva niente, ma poco a poco incominciò a famigliarizzarsi col linguaggio arcano degli schiavi, vide come si doveva esprimere il pensiero velato, mascherato, allusivo, senza compromettere nessuno; e strizzando l'occhio a Tiziano gli disse:
— A proposito devo dirti che l'uccellino che cantava così bene nell'orto di sior Iseppo, e che volevano accalappiare per metterlo in gabbia, non si è lasciato prendere ed ha spiccato il volo sulle montagne....
L'allusione era troppo poco velata perchè l'impiegato che assisteva al dialogo non dovesse comprenderla, ma finse di non aver inteso e lasciò andare la cosa senza osservazioni.
Tiziano avendo capito che l'amico era in salvo si rasserenò alquanto, e procurò d'infondere coraggio a suo padre, si mostrò sempre dignitoso, e ritornò alla sua prigione rasserenato ad aspettare il processo che gli facevano i tedeschi, perchè egli italiano, amava l'Italia.
Sior Antonio aveva saputo che i personaggi più cospicui, e le famiglie più stimabili di Venezia si erano rese invano garanti perchè l'avvocato Manin venisse processato a piede libero, e vedendo che non c'era nulla a sperare da un governo spietato e sospettoso, e convinto che bisognava forse aspettare lungamente l'esito del processo, voleva ritornarsene in Cadore dove lo chiamavano il dovere e le necessità degli affari, ma i suoi buoni padroni lo forzarono a rimanere con loro, procurando così al padre ed al figlio l'unica consolazione alla quale potevano aspirare, quella di vedersi qualche volta, e di essere vicini.
Allora il bravo cadorino per togliere la moglie dall'ansiosa aspettativa, decise di mandare sue notizie all'arcidiacono non dimenticando i prudenti consigli di lui, e quelli dei padroni, che gli raccomandavano tanto d'essere guardingo e di misurare le parole, e fatto anche un po' esperto per l'esercizio dei dialoghi che teneva con suo figlio nel parlatorio del carcere, si accinse a scrivere con somma precauzione, quanto desiderava di far noto ai parenti ed agli amici. Ma fra il bisogno di render conto d'ogni cosa, e il timore di compromettere qualcuno con imprudenti espressioni, egli si trovò nel più grave imbarazzo, e costretto di pesare ogni pensiero, e di misurare ogni parola, rimaneva lungamente colla penna in mano, prima di scrivere una linea. Ogni pagina gli costava sudori, tuttavia scrisse a varie riprese le seguenti lettere, che dobbiamo pubblicare come documenti indispensabili che servono a far conoscere il successivo sviluppo degli avvenimenti che interessano il presente racconto.
«Reverendissimo Signor Arcidiacono
Vengo con questa mia a renderle conto del mio viaggio, che è stato faticoso per la Nina, e per l'umile sottoscritto, però siamo giunti entrambi in buona salute. Ho lasciato la Nina sotto la campana di Mestre, e sono arrivato a Venezia coll'ajuto di Dio. Le persone che io doveva vedere sono in villeggiatura, e quindi non possono giovarmi come io sperava. Mi sono assai sorpreso del loro gusto di ritirarsi in campagna nel cuore dell'inverno, ma Ella sa benissimo, Signor Arcidiacono che a questo mondo si fa sempre quello che si può, e non sempre quello che si desidera. Ho veduto mio figlio che sta bene di salute, quantunque starebbe meglio a casa, ma questo per ora non è possibile, perchè Sua Maestà imperiale reale ed apostolica, colla sua eccelsa volontà, si degna di tenerlo in prigione, del che siamo rispettosamente dolenti. Intanto rimango a Venezia per vedere se sarà liberato dalla giustizia di Sua Maestà, con tutto rispetto parlando.
Vado ogni giorno in chiesa a San Marco e mi raccomando caldamente alla Madonna della Consolazione, che si trova sotto un arco a sinistra del coro, — la Madonna non la consolazione — la quale mi manca del tutto, per i supremi voleri dell'altefatta Sua Maestà.
Null'altro per ora avendo da aggiungere, la prego, reverendissimo Signor Arcidiacono, di compatirmi sempre, salutandomi la Maddalena, a nome anche di Tiziano che le raccomanda il cane, e li saluta tutti, lei compreso, ed anzi per il primo, colle quali cose, malgrado le amarezze che mi rendono stupido, la prego di tenermi pel primo della parrocchia nell'ossequioso rispetto col quale me le dichiaro, e sono suo obbligatissimo e affettuoso
Antonio Larese del fu Taddeo.»
«Reverendissimo Signor Arcidiacono
Siamo tutti peccatori, e bisogna far penitenza, e per questo nessuno fuma più tabacco. È la più grande penitenza che abbia fatto in mia vita, dopo quella di cavarmi il cappello davanti i birbanti, ma per non cadere in tentazione ho rotto la pipa. L'altro giorno della gente senza creanza che fumava per le strade, è tornata a casa colle coste rotte. I facinorosi dichiarano che erano cagnotti della polizia, cioè rispettabili impiegati di Sua Maestà. Un'altra penitenza è quella di fuggire la musica. Quando si presenta la banda militare, la piazza diventa un deserto, invece si va a passeggio da un'altra parte in onore di Pio IX, e là si trova una folla del diavolo, dove io non manco mai, per divozione del papa. Adesso si porta il cappello colla fibbia del nastro sul davanti, ed anche io vado all'ultima moda; ma siccome io portava la fibbia dalla parte opposta, così il mio cappello vecchio pel lungo uso aveva la falda bassa davanti e alta di dietro, e adesso è tutto il contrario, ciò che mi permette di vedere il sole. Dicono che questa moda sia fatta per contare gli italiani, e così si fa l'anagrafi per la strada, e si vede che siamo nel numero dei più, senza esser morti. I poveri militari della Sacra Maestà dell'Imperatore vivono isolati, i facinorosi li guardano di cattivo occhio, e la gente li schiva come se avessero la peste. Colla quale prendo congedo da vostra signoria, afflittissimo