Olanda. Edmondo De Amicis

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Olanda - Edmondo De Amicis

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da un gran numero di barchette e di barconi, e la riva lontana sulla quale s’inalza una foresta di faggi, di mulini a vento, di torri d’officine; e sopra questo spettacolo, un cielo inquieto, pieno di bagliori e di oscurità sinistre, che si agita e si trasforma, come per imitare il movimento operoso della terra.

      Rotterdam—cade qui a proposito il dirlo—è, per importanza commerciale la prima città dell’Olanda, dopo Amsterdam. Era già una fiorente città di commercio nel tredicesimo secolo. Ludovico Guicciardini, nella sua opera sui Paesi-Bassi, già rammentata, adduce una prova della ricchezza di quella città nel decimosesto secolo, dicendo che in men d’un anno riedificò novecento case ch’erano state distrutte da un incendio. Il Bentivoglio, nella sua storia della guerra di Fiandra, la chiama terra delle più grosse e più mercantili che abbia l’Olanda. Ma la sua maggior prosperità non comincia che dopo il 1830, ossia dopo la separazione dell’Olanda e del Belgio, che parve fruttare a lei tutto quello che fece perdere alla sua rivale Anversa. La sua situazione è vantaggiosissima. Comunica col mare per la Mosa, che conduce nel suo porto, in poche ore, i più grandi bastimenti mercantili, e per lo stesso fiume comunica col Reno, che le porta dalle montagne della Svizzera e della Baviera una immensa quantità di legname, foreste intere che vanno in Olanda a trasformarsi in navi, in dighe e in villaggi. Più di ottanta bellissimi bastimenti vanno e vengono, nello spazio di nove mesi, tra Rotterdam e le Indie. Le merci vi affluiscono da ogni parte in così grande abbondanza, che debbono essere portate in parte nelle città vicine. Intanto Rotterdam si allarga; vi si stanno costruendo dei vasti magazzini e si lavora intorno a un ponte smisurato che attraverserà la Mosa e tutta la città, stendendo così la strada ferrata che ora s’arresta nella riva sinistra del fiume, sino alla porta di Delft, dove si congiungerà colla strada dell’Aja.

      Rotterdam, in somma, ha un avvenire più splendido che Amsterdam, ed è da molto tempo una rivale temuta della sorella maggiore. Non possiede le grandi ricchezze della capitale; ma è più industriosa nel valersi delle sue; intraprende, ardisce, rischia, da città giovane e avventurosa. Amsterdam, come un negoziante divenuto cauto dopo essersi fatto ricco con imprese ardite, comincia a sonnecchiare sui suoi tesori. A Rotterdam, per definire in un tratto le tre grandi città dell’Olanda, si fa fortuna; in Amsterdam, si consolida; all’Aja, si spende.

      Si capisce da questo come Rotterdam debba essere guardata un po’ dall’alto in basso dalle altre due città; un po’ considerata come una parvenue, anche per un’altra ragione: che è mercantessa pretta non occupata d’altro che dai suoi affari, e che ha poca aristocrazia, e quella poca non ricchissima e modesta. Amsterdam invece racchiude il fiore dell’alto patriziato mercantile; Amsterdam ha grandi musei di pittura, protegge le arti, è letterata; unisce, in somma, il titolo al sacchetto. Malgrado però la sua superiorità, essa è gelosa della sua sorella cadetta, e questa di lei; gareggiano e si dispettano; quello che fa l’una fa l’altra; quello che il Governo accorda all’una, l’altra lo vuole; in questo stesso momento, aprono tutt’e due un canale verso il mare; due canali dei quali non è ancora ben certo se si potranno servire; ma non monta; i bambini fanno così:—Pietro ha un cavallo;—voglio un cavallo anch’io; e il Governo, babbo condiscendente, deve contentare il grande e il piccino.

      Visto il porto, percorsi tutta la diga dei Boompjes, sulla quale si stende una schiera non interrotta di grandi case nuove, costrutte all’uso di Parigi e di Londra,—case che, come da per tutto, gli abitanti ammirano e lo straniero non guarda, o guarda con dispetto;—poi tornai indietro, rientrai in città, e di canale in canale, di ponte in ponte, riuscii nell’angolo formato dall’Hoog-Straat con uno dei due canali lunghissimi che chiudono la città ad oriente.

      Quella è la parte più povera della città.

      Entrai nella prima strada che vidi e feci parecchi giri in quel quartiere, per veder da vicino come sta la gente bassa nelle città olandesi. Le strade sono strettissime e le case più piccine e più sbilenche che in ogni altra parte; di molte si può toccare il tetto colle mani; le finestre sono a poco più d’un palmo da terra; le porte basse da doversi chinare per entrarci. Malgrado ciò, non v’è la menoma apparenza di miseria. Anche là le finestre hanno i loro specchietti—le spie, come si dicono in olandese,—i loro vasi di fiori sul davanzale, difesi da cancellatine verdi; le loro tendine bianche; gli usci tinti di verde o di azzurro; tutto spalancato, in modo che si vedon le camere da letto, le cucine, tutti i recessi della casa, stanzette che paiono scatole, dove la roba è ammontata come in botteghe da rigattieri; ma rami, stoviglie, mobili, tutto pulito e luccicante come in case di signori. Passando per quelle strade non si trova ombra di sudiciume da nessuna parte, non si sente un cattivo odore, non si vede nè un cencio nè una mano tesa per chiedere: si respira la pulizia e il benessere, e si pensa con vergogna ai luridi quartieri dove formicola il basso popolo in molte delle nostre città, ed anco non nostre, non esclusa Parigi, che ha pure la sua strada Mouffetard.

      Tornando verso l’albergo, passai per la piazza del gran mercato, posta nel bel mezzo della città, e non meno strana di tutto quello che la circonda.

      È una piazza sospesa sull’acqua; nello stesso punto piazza e ponte; un ponte larghissimo che congiunge la diga principale,—l’Hoog-Straat,—con un quartiere della città, circondato da canali. Questa piazza aerea è cinta di vecchi edifizi su tre dei suoi lati, sull’uno dei quali s’apre una strada lunga, stretta ed oscura, occupata tutt’intera da un canale che pare una strada di Venezia; ed è aperta dal quarto lato sur una specie di bacino formato dal canale più largo della città, che comunica direttamente colla Mosa. Su questa piazza s’innalza, circondata da baracche e da carretti, in mezzo a mucchi di legumi, d’aranci, di tegami, fra una folla di rivendugliole e di merciaiuoli, dentro una cancellata coperta di stuoie e di cenci, la statua di Desiderius Erasmus, la prima gloria letteraria di Rotterdam; quel Gerrit Gerritz,—poichè il nome latino, a somiglianza di tutti gli altri grandi scrittori del suo tempo, se l’era posto egli medesimo;—quel Gerrit Gerritz appartenente, per la sua educazione, il suo stile e le sue idee, alla famiglia degli umanisti e degli eruditi d’Italia, scrittore fine, profondo e infaticabile di lettere e di scienze, che riempì del suo nome l’Europa fra il decimoquinto e il decimosesto secolo, che fu colmato di favori dai papi, cercato, festeggiato dai principi; e delle cui innumerevoli opere, scritte tutte in latino, si legge ancora l’Elogio della pazzia, dedicato a Tommaso Moro. Quella statua di bronzo, innalzata nel 1622, rappresenta Erasmo vestito d’una pelliccia, con un berretto di pelo, un po’ inclinato innanzi come uno che cammina, con un grosso libro aperto in mano, nell’atto di leggere; e il piedestallo porta una doppia iscrizione olandese e latina che lo chiama vir sæculi sui primarius e civis omnium præstantissimus. E malgrado questo pomposo elogio, il povero Erasmo, piantato là come una guardia municipale in mezzo al mercato, fa compassione. Non v’è, io credo, sulla faccia della terra un’altra statua di letterato che sia come la sua trascurata da chi passa, disprezzata da chi la circonda, commiserata da chi la guarda. Ma chi sa che Erasmo, da quell’arguto filosofo che fu e che dev’essere ancora, non si contenti di quel cantuccio, tanto più che non è lontano da casa sua, se la tradizione non tradisce. In una stradetta vicino alla piazza, nel muro d’una piccola casa occupata da una taverna, si vede dentro una nicchia una statuetta di bronzo che rappresenta il grande scrittore, e sotto la nicchia l’iscrizione Hæc est parva domus magnus qua natus Erasmus; che forse otto su dieci Rotterdamesi non hanno mai letta nè vista.

      In un angolo di quella stessa piazza, v’è una piccola casa chiamata la casa della paura, sopra un muro della quale si vede un’antica pittura di cui non ricordo il soggetto. Il nome di casa della paura le fu posto, stando alla tradizione, perchè i più cospicui personaggi vi si ricoverarono quando gli Spagnuoli diedero il sacco alla città, e vi rimasero chiusi tre giorni interi senza mangiare. E non è quella la sola memoria degli Spagnuoli che si conservi a Rotterdam. Molti edifizi, costrutti al tempo della loro dominazione, rammentano la maniera d’architettura che s’usava allora nella Spagna; e parecchi portano ancora iscrizioni spagnuole. Nelle città d’Olanda le iscrizioni sulle case sono molto comuni. Le case si gloriano della loro vecchiezza come le bottiglie di vino, e mostrano la data della loro costruzione scritta in grandi caratteri nel mezzo della

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