Olanda. Edmondo De Amicis
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A Rotterdam non vidi che gli orecchini in uso nell’Olanda meridionale; ma anche solo in questa provincia, la varietà è grandissima. Si somigliano però tutti in questo, che invece di essere appesi all’orecchio, sono appesi alle due estremità d’un cerchio metallico, d’oro o d’argento o di rame dorato, che cinge la testa come un mezzo diadema, e viene a terminare sulle tempie. Gli orecchini più comuni hanno la forma d’una spirale a cinque o sei giri, sovente larghissimi, e sono attaccati in modo alle due estremità del cerchio, che sporgono innanzi al viso come le gambe di un paio d’occhiali. Molte donne portano ancora appesi a queste spirali due orecchini della forma ordinaria, ma più grandi, i quali scendono quasi fino a toccare il seno e dondolano dinanzi alle guance come le gingioliere dei bovi. Altre hanno il cerchio d’oro che cinge anche la fronte ed è cesellato, ornato di fiorami in rilievo, di borchiette, di bottoni. Quasi tutte portano i capelli lisci e compressi, e una cuffia bianca ricamata od ornata di trina che copre e stringe la testa come una cuffia da notte e scende in forma di velo pure trinato e ricamato intorno al collo e sulle spalle. Questo velo svolazzante all’uso arabo e quegli orecchini spropositati e stravaganti, dànno a queste donne un aspetto tra regale e barbaresco, che, se non fossero bianche come sono, le farebbe pigliare per donne di qualche paese selvaggio, che avessero conservato del loro costume nativo l’ornamento del capo. Non mi meraviglio che certi viaggiatori, al vedere per la prima volta quegli orecchini, abbiano creduto che fossero ad un tempo un ornamento e uno strumento, e abbiano chiesto a che cosa servissero. Ma si può anche supporre che siano fatti così per un altro scopo: che servano cioè come armi di difesa al pudore femminile, perchè un impertinente che avvicinasse troppo il viso, incontrerebbe quell’impedimento almeno quattro dita prima di giungere a toccare la guancia. Questi orecchini, portati particolarmente dalle donne del contado, son quasi tutti d’oro e costano, grandi come sono e poi col cerchio e gli altri accessorii, una bella somma; ma dei contadini olandesi vidi ben altre ricchezze nelle mie passeggiate in campagna.
Vicino alla piazza del mercato v’è la Cattedrale, fondata verso la fine del decimoquinto secolo, al tempo della decadenza dell’architettura ogivale: allora chiesa cattolica, dedicata a san Lorenzo, ora la prima chiesa protestante della città. Il protestantesimo, vandalo della religione, entrò nella chiesa antica col piccone e col pennello dell’imbianchino, ruppe, scrostò, sdorò, intonacò, lacerò con pedantesco fanatismo tutto quello che vi rinvenne di bello e di splendido, e la ridusse un edifizio nudo, bianco, freddo, quale avrebbe dovuto essere, al tempo degli Dei falsi e bugiardi, un tempio consacrato alla Dea della Noia. Un organo immenso, composto di quasi cinquemila canne, che rende, fra gli altri suoni, l’effetto dell’eco; alcune tombe d’ammiragli ornate di lunghi epitaffi olandesi e latini; molti banchi, qualche ragazzo col cappello in capo, un gruppo di donne che chiacchieravano ad alta voce, un vecchietto col sigaro in bocca in un canto: non vidi altro. Quella era la prima chiesa protestante in cui mettevo il piede e confesso che mi fece un senso sgradevole, misto un po’ di tristezza e di scandalo. Confrontai quell’aspetto di chiesa devastata colle magnifiche cattedrali d’Italia e di Spagna, dove sulle pareti rischiarate d’una luce soave e misteriosa, a traverso le nuvole d’incenso, s’incontrano gli sguardi amorosi degli angioli e delle sante, che ci mostrano il cielo; dove si vedono tante immagini d’innocenza che rasserenano, tante immagini di dolore che aiutano a soffrire, che ispirano la rassegnazione, la pace, la dolcezza del perdono; dove il povero senza tetto e senza pane, respinto dalla porta del ricco, può pregare fra i marmi e gli ori, come in una reggia, nella quale non è disdegnato, fra uno splendore e una pompa che non lo umilia, che anzi onora e conforta la sua miseria; quelle cattedrali, in fine, dove c’inginocchiammo da fanciulli accanto a nostra madre, e sentimmo per la prima volta una dolce sicurezza di riviver un giorno con lei in quei profondi spazi azzurri che vedevamo dipinti nelle cupole sospese sul nostro capo. Confrontando quella chiesa con queste cattedrali, mi accorsi ch’ero assai più cattolico che non credessi, e sentii la verità di quelle parole del Castelar:—Ebbene, sì, sono razionalista: ma se un giorno dovessi tornare in seno ad una religione, tornerei a quella splendida dei miei padri, e non a codesta religione squallida e nuda, che rattrista i miei occhi e il mio cuore!
Dall’alto della torre si vede con un colpo d’occhio tutta la città di Rotterdam coi suoi piccoli tetti rossi ed acuti, i suoi larghi canali, i suoi bastimenti sparpagliati fra le case, e tutt’intorno alla città, una pianura sconfinata e verdissima, percorsa da canali fiancheggiati d’alberi, sparsa di mulini a vento, di villaggi nascosti in mezzo a mucchi di verzura, che non mostrano che la punta dei loro campanili. In quel momento il cielo era sereno, si vedevano luccicare le acque della Mosa dalle vicinanze di Bois-le-Duc fino quasi alla sua foce; si scorgevano i campanili di Dordrecht, di Leida, di Delft, dell’Aja, di Gouda; ma da nessuna parte, nè vicino nè lontano, una collina, un rialto di terra, una curva che interrompesse la linea diritta rigidissima dell’orizzonte. Era come un mare verde ed immobile, sul quale i campanili rappresentavano alberi di bastimenti ancorati. L’occhio spaziava su quell’immenso piano quasi riposandosi, ed io provavo per la prima volta quel sentimento indefinibile che ispira la campagna olandese, che non è tristezza, nè piacere, nè noia, ma un misto di tutte e tre queste cose, che ci tien là molto tempo immobili, senza saper che cosa si guarda e a che cosa si pensa.
Tutt’a un tratto fui scosso da una musica bizzarra che non capii subito di dove venisse. Erano campane che suonavano un’arietta allegra con note argentine, le quali ora scoccavano lente che pareva si staccassero a fatica l’una dall’altra, ora prorompevano in gruppi, in fioriture strane, in trilli, in scoppi sonori; una musica saltellante e piena di ghiribizzi, che aveva qualcosa di primitivo come la città variopinta, sulla quale si spandevan le sue note a guisa d’uno stormo d’uccelli; e anzi consuonava così al carattere della città, che pareva la sua voce naturale, un’eco della vita antica di quella gente, che faceva pensare al mare, alla solitudine, alle capanne, e nello stesso tempo destava il riso e toccava il cuore. All’improvviso la musica cessò e sonarono le ore. In quello stesso punto altri campanili lanciavano nell’aria altre ariette delle quali mi arrivavano appena all’orecchio le note più acute, e finite le ariette, suonavan le ore come il primo. Questo concerto aereo, come seppi poi, e me ne fu spiegato il meccanismo, si ripete ad ogni ora del giorno e della notte, in tutti i campanili dell’Olanda; e sono arie di canzoni nazionali, di salmi, d’opere italiane e tedesche. Così in Olanda l’ora canta, come per distrarre la mente dal pensiero triste del tempo che fugge, e canta la patria, la religione e l’amore, con un’armonia che sorvola a tutti i rumori della terra.
Ora, per continuare a dire per ordine quello che vidi e quello che feci, devo condurre chi legge in un caffè e pregarlo d’assistere al mio primo desinare olandese.
Gli Olandesi mangiano molto. Il maggior piacere che si pigli da loro, come dice il cardinale Bentivoglio, è fra i conviti e le tavole. Ma non sono golosi, son voraci; tirano alla quantità più che alla qualità. Fin dai tempi antichi, erano canzonati dai loro vicini, non soltanto per la ruvidezza dei loro costumi, ma per la semplicità del loro nutrimento: si chiamavano mangiatori di latte e di formaggio. Mangiano generalmente cinque volte al giorno. Di levata, tè, caffè, latte, pane, cacio, burro; poco prima di mezzogiorno una buona colezione; prima di pranzo, quello che si direbbe uno spuntino, cioè un bicchier di liquore e qualche biscotto; poi un gran pranzo; e la sera tardi il pusigno, per usare la parola propria, ossia qualche cosuccia, tanto per non andare a letto collo stomaco ozioso. Mangiano poi in comune in molte occasioni non parlo di nascite e di matrimoni, che è uso di tutti i paesi; ma, per esempio, di sepolture: usando che gli amici e i conoscenti che hanno accompagnato il convoglio funebre, riconducano la famiglia del defunto a casa, e là siano invitati a mangiare e a bere, e facciano per solito molto onore ai loro ospiti. La pittura olandese, quando non ci fosse altra testimonianza, è là per provarci la parte principalissima che ebbe sempre la tavola nella vita di quel popolo. Oltre gl’infiniti quadri di soggetti casalinghi, nei quali si direbbe che il piatto e la bottiglia sono i protagonisti, quasi tutti i grandi quadri che rappresentano personaggi storici, borgomastri, guardie civiche, li mostrano seduti a tavola in atto di mordere, di tagliare, di mescere. Persino il loro eroe, Guglielmo il Taciturno, l’incarnazione della nuova Olanda, incarnò pure quest’amor nazionale della tavola,