Olanda. Edmondo De Amicis
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In un altro campo di pittura dovevano grandeggiare gli Olandesi: il mare. Il mare, loro nemico, loro potenza e loro gloria, che sovrasta alla loro patria, che la tormenta e la teme, ed entra da mille parti e in mille forme nella loro vita; quel Mare del Nord turbolento, pieno di colori sinistri, illuminato da tramonti di una mestizia infinita, che flagella una riva desolata, doveva soggiogare la immaginazione degli artisti olandesi. Essi, infatti, passano lunghe ore sulla spiaggia a contemplare la sua bellezza tremenda, si avventurano fra le onde per studiare la tempesta, comprano dei bastimenti e navigano colla loro famiglia osservando e dipingendo, seguono le flotte nazionali nelle guerre e assistono alle battaglie, e così nascono dei pittori di marina, come Guglielmo Van de Velde il vecchio e Guglielmo il giovane, il Backuisen, il Dubbels, lo Stork.
Un altro genere di pittura doveva sorgere in Olanda, come espressione del carattere del popolo e dei costumi repubblicani. Un popolo che senza grandezza aveva fatto tante grandi cose, come dice il Michelet, doveva avere la sua pittura, se così può dirsi, eroica, destinata ad illustrare uomini ed avvenimenti. Ma questa pittura, appunto perchè quel popolo era senza grandezza, o per meglio dire, senza la forma della grandezza, modesto, inclinato a considerar tutti uguali dinanzi alla patria, perchè tutti avevano fatto il loro dovere, aborrente dalle adulazioni e dalle apoteosi che glorificano in un solo le virtù e il trionfo di molti; questa pittura doveva illustrare non già pochi uomini eccelsi e pochi fatti straordinarii; ma tutte le classi della cittadinanza colte nelle congiunture più ordinarie e pacifiche della vita borghese. Di qui, i grandi quadri che rappresentano cinque, dieci, trenta persone insieme, archibugieri, sindaci, ufficiali, professori, magistrati, amministratori, seduti o ritti intorno a una tavola, banchettando o discutendo, tutti di grandezza naturale, tutti ritratti fedelissimi, visi gravi, aperti, sui quali risplende l’intima serenità della coscienza sicura, sui quali s’indovina, più che non si veda, la nobiltà della vita consacrata alla patria, il carattere di quell’epoca forte e operosa, le virtù maschie di quelle generazioni prestanti; tutto questo rilevato dal bel costume del rinascimento che accoppia così mirabilmente la gravità e la grazia, quelle gorgiere, quei giustacori, quei mantelli neri, quelle ciarpe di seta, i nastri, le armi, le bandiere. E in questo campo facevan capolavori i Van der Helst, gli Hals, i Govaert Flink, i Bol.
Scendendo dalla considerazione dei varii generi di pittura, alla maniera speciale, ai mezzi di cui si valsero gli artisti nel trattarli, se ne presenta subito uno principalissimo, che è come il tratto distintivo della scuola olandese: la luce.
La luce, in Olanda, per le condizioni particolari in cui si manifesta, doveva far nascere una maniera particolare di pittura. Una luce pallida, ondeggiante con una mobilità meravigliosa a traverso un’atmosfera pregna di vapori, un velo nebuloso continuamente e bruscamente lacerato, una lotta perpetua fra i raggi e le ombre, era uno spettacolo che doveva attirar l’attenzione dei pittori. Essi cominciavano a osservare e a ritrarre tutte codeste inquietudini del cielo, codesta lotta, che anima d’una vita varia e fantastica la solitudine della natura olandese; e nel ritrarla ch’essi facevano, codesta lotta passò nelle loro menti, e allora, invece di ritrarre, crearono. Allora fecero cozzare essi medesimi i due elementi; accumularono le tenebre, per saettarle, per romperle con ogni maniera di rilievi luminosi e di sbattimenti di luce; per farci guizzare e morire dei raggi di sole, dei riflessi crepuscolari, dei chiarori di lucerne, digradanti con sfumature delicatissime in ombre misteriose; e popolare queste ombre di forme confuse, che si vedono e non si distinguono; e creare così ogni sorta di giochi, di contrasti, di enigmi, d’effetti di chiaroscuro inaspettati e strani. E in questo campo fecero prodigi veri, fra gli altri moltissimi, Gherardo Dow, l’autore del quadro famoso delle quattro candele, e il grande, magico, sovrumano illuminatore, Rembrandt.
Un altro carattere principalissimo della pittura olandese doveva essere il colorito. Oltre la ragione così generalmente riconosciuta che in un paese dove non sono orizzonti montuosi, non prospetti accidentati, non grandi colpi d’occhio, non forme generali, insomma, che si prestino al disegno, l’occhio dell’artista dev’essere maggiormente sedotto dai colori; e che ciò deve tanto più seguire in Olanda, dove la luce incerta, la vaga bruma che vela continuamente l’aria, ammollisce, sfuma i contorni degli oggetti, onde l’occhio, trascura la forma che non può bene afferrare, e si fissa di preferenza nel colore come l’attributo principale che gli offre la natura; oltre queste ragioni, v’è quella che in un paese piano, uniforme e grigio come l’Olanda, s’ha bisogno di colori, come in un paese meridionale s’ha bisogno dell’ombra. Gli artisti olandesi non fecero che andar dietro al gusto imperioso del loro popolo, che tinse di colori vivissimi le case, i bastimenti, in alcuni luoghi i tronchi degli alberi, le palafitte, gli stecconati della campagna; che si veste, che si vestiva molto più allora di colori allegri; che ama i tulipani e i giacinti fino alla pazzia. E così tutti i pittori olandesi furon coloristi potenti, Rembrandt il primo.
Il realismo, favorito dal carattere olandese calmo e lento, che consente agli artisti di padroneggiare la propria foga, e aiutato dalla loro natura che mira all’esatto e rifugge dal fare le cose a mezzo, doveva dare alla pittura di quel popolo un altro tratto distintivo: la finitezza; e questa finitezza doveva esser condotta dagli Olandesi all’ultimo grado del possibile. Si dice con ragione che nei quadri olandesi si trova la prima qualità di quel popolo: la pazienza. Ogni cosa vi è rappresentata con la minutezza del dagherrotipo: i mobili con tutte le loro venature, le foglie con tutte le loro fibre, i tessuti con tutti i loro fili, le rappezzature con tutti i loro punti, gli animali con tutti i loro peli, i visi con tutte le loro rughe; ogni cosa finito con una precisione microscopica, da far credere che sia l’opera del pennello d’una fata, o che il pittore ci abbia perduto la vista e la ragione. Difetto, in fondo, piuttosto che pregio, poichè l’ufficio della pittura è di ritrarre non quello che è, ma quello che l’occhio vede, e l’occhio non vede, ogni cosa; ma è difetto portato a una così meravigliosa eccellenza, che lo si ammira senza lamentarlo, e non s’osa desiderare che non ci sia. E per questo rispetto furon famosi come prodigi di pazienza il Dow, il Mieris, il Potter, il Van der Helst, e più o meno, tutti i pittori olandesi.
Ma il realismo che dà alla pittura olandese una impronta così originale, e delle qualità così ammirabili, è pure la radice dei suoi difetti più gravi. I pittori olandesi, solleciti soltanto di ritrarre la verità materiale, non danno alle loro figure che l’espressione di sentimenti fisici. Il dolore, l’amore, l’entusiasmo e i mille affetti delicatissimi che non han nome, o pigliano un nome diverso dalle diverse cagioni che li fan nascere, li esprimono raramente o non li esprimono mai. Per loro il cuore non batte, l’occhio non piange, la bocca non trema. Nei loro quadri manca tutta una parte, la più potente e la più nobile, dell’anima umana. Di più, con quel ritrarre fedelmente ogni cosa, anche il brutto, e specialmente il brutto, finiscono per esagerare anche, questo, convertono i difetti in deformità, i ritratti in caricature; calunniano il tipo nazionale; danno ad ogni figura umana un aspetto sgraziato e burlesco. Per aver dove mettere queste figure, son costretti a sceglier soggetti triviali; quindi il soverchio numero di quadri che rappresentano bettole e beoni con faccie grottesche, instupidite, in atteggiamenti sguaiati, donnaccie, vecchi spregevolmente ridicoli; scene in cui par di sentir le grida squarciate, o le parole oscene. Si direbbe, a guardar quei quadri, che l’Olanda è abitata dal popolo più deforme e più scostumato della terra. Di qui i pittori discendono ancora a maggiori licenze. Lo Steen mette un lavativo in mezzo a un quadro; il Potter dipinge una vacca che orina; il Rembrandt disegna persone che fanno gli offici di sotto; il Brouwer, rappresenta ubriachi che fan la ricevuta; il Torrentius manda in giro dei quadri così spudorati che gli Stati d’Olanda li fan raccogliere e bruciare. Ma anche lasciando questi eccessi, in un Museo d’Olanda non si trova quasi mai nulla che sollevi l’anima, che desti un movimento di pensieri alti e gentili. Si ammira, si gode, si ride, si rimane pensosi dinanzi a qualche paesaggio; ma uscendo, si sente che non s’è provato un piacere intero, si desidera qualche cosa, si prova come un bisogno di vedere dei visi belli e di leggere dei versi ispirati, e qualche volta vien fatto di mormorare, quasi senz’addarsene:—Oh Raffaello!
Infine, bisogna ricordare ancora due grandi pregi di questa pittura: la sua varietà e la sua importanza come espressione, come specchio, per così dire, del paese. Se si toglie il Rembrandt