Novelle e paesi valdostani. Giacosa Giuseppe

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Novelle e paesi valdostani - Giacosa Giuseppe

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Sono qui, sono qui, eccolo in aria il castiga rozze, il castiga brenne, il castiga some, ciac, ciac, lo senti?—Oh, oh, oh! no, con me! non si fanno i capannoni con Giac! Giac è buono!—Volete spuntare canaglie, devono tirar tutto questi due vecchioni qui sotto? Ci sono dei signori sapete, non è mica la baracca dell'inverno piena di pechini e di pidocchi.—Brava Forca! Lo sapevo, ora si mette al galoppo, ciac, ciac, ciac, anime belle, vi insegno il mestiere.

      Certe volte il mestiere lo insegnava ai viaggiatori che gli sedevano vicino, e allora erano sperticati elogi delle sue bestie, quattro agnelli, ciac, ciac, che non occorre toccarli mai.

      Coi signori, tutta gente scribacchina, chiamava penna la frusta e calamaio l'astuccio di cuoio dove riporla in riposo, e via discorrendo.

       * * *

      Il padrone di Giac, oste del Cannon d'Oro, teneva la posta da quindici anni, e vi s'era arricchito ed impinguato.—Era un grosso omaccione [pg!6] dal lardo cadente, pallido per vizio cardiaco e lento come un pachiderma. Un monferrino, capitato venticinque anni addietro in Val d'Aosta conducente di vino, stabilitovisi beccaio, assodatovisi tavernaio e salito poscia alla dignità di albergatore e mastro di Posta. In sua vita, aveva fatto due cose buone: molti quattrini ed una bella ed abbondante figliuola; quelli per sè, questa [essa almeno sperava] per altri.

      Ora, vecchio, non faceva più nulla; all'albergo pensava la figliuola, la quale, nata quando già il padre prosperava, era chiamata mademoiselle dai forestieri, e soura Gin [signora Giovannina] da quelli di casa; mentre al padrone, venuto su dal nulla, il nome di Pèro [Pietro] non s'era mai potuto nobilitare con un sour, ed era somma grazia se negli ultimi anni, più la pancia che la dignità, lo avevano fatto chiamare Barba Gris [zio grigio].

      Soura Gin era dotata di una grassezza soda e fresca; bionda, bianca, piccolo naso, piccoli occhi vivissimi, bocca larga, labbra carnose e ridenti, dentatura stupenda. Badava a tutto, compresi i cavalli, era sempre dappertutto, ma più in scuderia, quando sapeva di trovarci Giac. Una volta che a Giac era toccato un potentissimo calcio da una mula, essa gli aveva fasciato la gamba ferita e lo aveva tenuto all'albergo come un signore per oltre una settimana. Un'altra [pg!7] volta, venuti alle mani Giac e lo stalliere, questi ebbe da soura Gin otto giorni di paga ed il congedo immediato. Barba Gris attribuiva quelle cortesie a saggezza amministrativa: Giac essendo una perla di cocchiere, era naturale che la figliuola lo tenesse da conto: ma Giac, sapeva valutarle altrimenti, benchè non adoperasse per procacciarsele; giovialone con tutte le donne, a tu per tu diventava un sultano freddo e non curante e faceva grazia a lasciarsi adorare.

      Un giorno il caffettiere e tabaccaio del luogo, venne dall'oste a confidargli come qualmente una sua nipote ed erede, si fosse innamorata di Giac, e lo volesse ad ogni costo per marito.

      Giac non visto udiva il colloquio.

      —Che ne dite voi?

      —Dateglielo.—È un accidenti che può far la sorte di una casa.

      E giù un sacco di elogi.

      Giac la sera, tornato dalla tappa, così vestito com'era, colla blouse di tela blu e la frusta in mano, prese Barba Gris in disparte, e senza preamboli gli chiese la mano di soura Gin.

      Il grosso uomo gli piantò in faccia gli occhi stralunati, gli strappò di mano la frusta e rispose:

      —Questa è la penna con cui vuoi scrivere il contratto? Fila, o te la misuro sulla groppa.

      —Non volete? Padrone! [pg!8] E andò a cena, poi a dormire sul fienile. Verso la mezzanotte Gin fu a svegliarlo.

      —Vieni con me.

      Lo condusse in cucina, lo fece sedere, sturò una bottiglia di Carema, gli sedette accanto, colmò due bicchieri, e levandone uno per toccare gli disse:

      —Alle nostre nozze!

      Giac diede una crollatina di spalle.—Essa riprese:

      —Queste sono due mila e settecento lire che ho raspato in quattro anni di governo. Sono mie. Il padre mi ha detto ogni cosa, bisogna costringerlo, se ti sposo senza il consenso, mi leva dal testamento: è un cane.

      —E lei non mi sposi.

      —Con questi quattrini, tu gli pianti la concorrenza, comperi quattro cavalli e l'omnibus della Croce Rossa di Ivrea che è da vendere. I quattrini li avrai trovati da una persona che ti protegge. Parti subito. Fra otto giorni piombi qui coll'omnibus verniciato a nuovo: lo chiamerai «l'America» e ci scriverai Concorrenza in giallo che sembri oro. Attacchi tre cavalli, il quarto starà di ricambio, in sei mesi li avrai accoppati ma di qui là nasceranno cose. Farai tappa qui, per dar profitto all'albergo, e mai parole brusche col padre. Siamo intesi? Va.

      [pg!9] Giac la guardava versargli addosso dagli occhi asciutti tutto il fuoco della sua giovinezza, sentendo di potersela pigliare solo allungando la mano. In quel discorso, tronco, pensato, furbo, dove non era altra parola che d'affari, vibrava una passione ardente, disposta egualmente a concessioni immediate ed a lunghe pazienze. Ogni parola acquistava dalla voce e dall'accento una doppia portata. Passava per il cervello, un cervello mercantile ordinato e spedito, ma scaturiva diritta dal cuore. Diceva le cose assennate, tradiva i sentimenti scomposti, i termini erano da lettera di traffico, la voce era piena d'impeti e di caldezze peccaminose e gli occhi secondavano la voce, foravano e frugavano, cercando nel volto impassibile del giovane, un assentimento che la facesse trionfare come di una vittoria insperata.

      Il danaro era sulla tavola.—Essa seguitava: Un cavallo, lo trovi a Donnas, che è il grigio di Loutrier; ha otto anni; ora è sfiancato, ma lo rifaremo. Loutrier l'ha comprato tre mesi fa dall'Ebreo, ora lo rivende perchè smette il negozio per la morte del figlio; ce n'è un altro da vendere a Verres dal fornaio, quell'alto alto, colle barbette lunghe: per trecento lire te lo buttano dietro; puoi provare se Viano il conducente ti vende la Bella, è ombrosa e scappa, ma nelle tue mani...!

      [pg!10] Non si può dire la carezza ammirativa che c'era in quelle parole: nelle tue mani, e per accrescerla, essa ne afferrò una di quelle mani poderose e la serrò vigorosamente in una stretta dove raccolse tutto il fuoco della sua impaziente verginità, e tutta la tenerezza dell'animo.

      E il giovane seguitava a guardarla impassibile, già risoluto di accettare, ma inconsciamente persuaso del potere irresistibile che gli derivava dalla sua freddezza.

      Gin, ripreso il bicchiere che aveva deposto, lo tese verso di lui.

      —Non vuoi toccare?

      —Topa—rispose Giac, toccando col movimento del suonatore di piatti—poi bevve d'un fiato e levatosi in piedi intascò lentamente quattrini.

      —Bondì soura Gin.

      —Quando torni?

      —Appena montata la baracca; ma i cavalli che mi ha detto lei non li voglio. A vedermeli comperare farebbero troppi discorsi per la valle; bisogna piombare qui d'un colpo col terremoto dell'America.

      —È giusto: comprali dove vuoi; ma fa presto.

      —E se me li mangio?

      Gin crollò le spalle, sicura. Giac s'avviò seguito [pg!11] dalla ragazza. Sull'uscio, questa gli pose una mano sulla spalla; il giovane si voltò brusco, la levò di peso e tenendola tutta inerte nelle braccia, le stampò sulla bocca un bacio lungo e mordente, finchè Gin guizzatagli di mano

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