Novelle e paesi valdostani. Giacosa Giuseppe

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Novelle e paesi valdostani - Giacosa Giuseppe

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fondo. Di là escono attirate dal sole lame sottili di vapori come lingue di serpi aizzate. Le roccie rivelano scoscendimenti e scogliere acutissime e le nevi sfolgoreggiano accese di una luce insostenibile.

      I due cacciatori avevano lasciato il sentiero che sale al colle della Nouva e piegando a diritta seguivano nel suo più basso lembo il nevato che volge verso Lavina. La giornata splendida e la montagna pulita come un vetro, promettevano una caccia facile e sicura. I camosci si erano avveduti di loro, poichè le traccie recentissime sulla neve li mostravano passati di fresco, ma il luogo di rifugio non poteva essere [pg!26] lontano; su pel nevato e di lì al ghiacciaio non erano ascesi perchè essi li avrebbero avvertiti e poco discosto a diritta, giusto nella direzione delle peste, il pianoro era bruscamente troncato da un burrone che scendeva a picco fino alla valle. Là certo i camosci, e dovevano essere in molti, si erano nascosti in una gran rovina di massi enormi ed il loro si confondeva col colore della roccia viva. Ma accostati non potevano fuggire. Il burrone, benchè strettissimo, era troppo largo anche al salto del più gagliardo ed impaurito stambecco e le sue pareti liscie ed incrostate di ghiaccio non davano presa a discenderlo.

      I due camminavano in silenzio, lo schioppo armato e quasi spallato, coll'ansia indicibile del colpo imminente. Un sibilo acutissimo li piantò immobili in attesa; i camosci, una quindicina almeno, erano tutti ritti sulla cresta delle roccie annusando l'aria inquieti dello scampo. Quattro colpi ne precipitarono tre giù pel dirupo, e gli altri fuggirono a salti verso il ghiacciaio. Neanche la pena di portarli a spalle fino alla piana; i camosci c'erano caduti da sè; una buona giornata! I cacciatori corsero ad affacciarsi all'abisso e videro in fondo sulla neve terrosa di una valanca le tre bestie già immobili.

      Stavano per tornare quando il Balmet accennò [pg!27] subitamente al Rosso la cresta opposta del burrone dicendo:

      —Le guardie.

      Erano due com'essi, armati com'essi, fermi a guardarli.

      —Il colpo è fatto,—rispose il Rosso,—scendiamo.

      Diffatti le guardie non potevano, per la distanza, averli ravvisati e di cacciatori in paese ce n'era tanti, che valli a scoprire. Al più occorreva, per non perdere la preda, avanzare le guardie nella discesa; una volta padroni dei camosci, a nasconderli ci pensavano essi.

      Il Balmet non perdeva d'occhio il nemico.

      —Hanno un cannocchiale.

      —Sì? A me!

      E senza pure un secondo di esitanza, il Rosso si pose a ricaricare il fucile dopo di aver minacciato con un gesto le guardie.

      —Giù!—gridò il Balmet, e si gettò lungo e disteso sulla roccia.

      Dall'altra partì una schioppettata; il Rosso lasciò cadere l'arma, urlò un Cristo, tentò un passo verso il compagno e rotolò a terra. Le guardie, fatto il colpo, erano scomparse.

      Balmet si precipitò verso il Rosso. Era vivo ed in sensi; con uno sforzo violentissimo s'era raccolto a sedere e stava tastandosi colla destra [pg!28] il braccio e la gamba sinistra gridando: I porci! i porci! i porci! Due grossi pallettoni lo avevano colpito all'avambraccio sinistro ed alla coscia sinistra ed erano usciti tutti e due, quello del braccio rigando profondamente la carne, e quello della coscia lacerando certo qualche muscolo o qualche nervo motore. Balmet prese un pugno di neve e lo cacciò nelle ferite dopo averle denudate; il Rosso lasciava fare imprecando sempre colla stessa parola ai feritori.

      —Puoi reggerti?

      —Impossibile.

      —Come scendere?

      —Portami.

      Ma il Balmet non poteva bastare al peso, il ferito era un demonio di omaccione alto e pieno, da stancare otto braccia.

      —Aspettami.

      —Aiutami a levarmi di qui, posami là,—e indicava una macchia verde di erba nuova in basso del nevato.

      Come vi fu adagiato, il Balmet gli diede la fiaschetta dell'acquavite, un grosso pane, uno straccio di carne salata, si levò di dosso la giacca di lanaccia, gliela pose sulle spalle, gli promise che sarebbe tornato al più presto con aiuti, e via a precipizio per la più diritta.

      Era forse l'una pomeridiana. Il sole batteva [pg!29] a perpendicolo e l'aria tremava e fumava. Il nevato sudava e si squagliava in rigagnoletti, i quali saltellando per le asperità del suolo o scorrendo lisci sulla neve, rendevano mille musiche allegre, suoni metallici, mormorii sommessi di innamorati, brontolii corrucciati come di vespa rinchiusa, gorgogliavano con accenti di rabbiuzza impotente nelle strette rocciose e poi si combinavano e, come lieti di ritrovarsi dopo tanto silenzio di prigionia, acceleravano la corsa fino a precipitare in cascata di spruzzi argentini giù per qualche dirupo che serbava ancora lungo la parete la riga secca e nericcia che gli avevano lasciato le acque degli anni addietro. Qua e là, nei seni meno assiduamente percossi dal sole, un filo d'acqua tardivo e stantìo gocciolava miseramente con intermittenze di singhiozzo, ed alla prima nuvola che l'oscurasse, stagnava ad un tratto, per rilamentarsi, tornato il sole, come un fanciullo piagnucoloso.

      Nei larghi fortemente inclinati, in certi punti la terra trapelava con toni neri lucentissimi fra un nevischio diradato come una mussola; in altri luoghi ogni traccia di candore era sparita ed un'erbetta minuscola e tenerissima luccicava al sole. Il Rosso rimaneva immobile, le gambe distese sull'erba, la schiena appoggiata ad un sasso, muto nella rabbia e negli spasimi delle ferite. [pg!30] Ad ora ad ora allungava il braccio sano, raspava quel po' di neve che gli veniva fatto e mutava empiastri alla piaga; così aveva fermato il sangue. Misurando colla memoria lo spazio che lo separava dalle prime case, contava il tempo che gli rimaneva d'attesa prima che tornasse il compagno. A quest'ora è giunto all'abetaia; avrà preso per il Clapey, il terreno è sdrucciolevole, ma egli salta come un camoscio; e lo faceva qui e là e più in basso e ne seguiva la corsa, minuto per minuto, rivedendo i luoghi, richiamandosi in mente tutti i particolari della via. Come la sapeva a memoria la sua montagna; non si era mai avveduto di conoscerla tanto! Chi verrà? Questi è in casa di certo, quell'altro bettoliere sfaccendato sarà giù in Cogne briaco. E poi ci sono le donne. Ma già bisognava fare i conti larghi; la gente ha da fare, non si trovano subito tre o quattro disposti alla prima chiamata. E allora si metteva a capo fitto negli ostacoli, si lambiccava il cervello a cercarne; e forse alle prime case della gente non ce n'era; pazienza saranno un'ora, due ore di più, che importa? ne rimangono delle ore di sole!

      Provava una tenerezza immensa per gli amici e conoscenti della valle, una vivacità infantile d'affetto per gente cui non parlava da anni. Nel suo monologo silenzioso chiamava: Quel buon [pg!31] Pietro, quel buon Stefano; un Pietro ed uno Stefano che aveva minacciato di schiaffi il giorno addietro, e tirava i conti al bilancio delle sue buone azioni, ripensando i mille minuti servigi resi qua e là; ad uno aveva dato mano a levare la vacca da un burrato; un altro quando egli saliva ai camosci lo pregava di sterrargli la tura per dar da bere ai prati; e quando scendeva in Aosta, quante diverse incombenze gli fioccavano addosso! e quante volte i cacciatori suoi compagni l'avevano richiesto d'aiuto per ficcargliela alle guardie; ed egli non aveva mai rinculato.

      Era un buon diavolaccio in fin dei conti, e colla sua forza un altro sarebbe stato ben più prepotente e manesco di lui. Ma poi veniva la pagina del passivo, ed i pugni ed i calci menati senza misericordia gli facevano, ripensandoli, una sorpresa dolorosissima.

      Una volta, un marito lo aveva colto allo scuro sul fienile colla moglie, perchè egli era stato un bel pezzo di giovinotto dieci anni addietro e le donne non gli dicevano di no, e a quel marito era stata somma grazia tacere perchè lo conosceva. Che idea di fare così il galluccio su tutte le stie! Bel profitto glie ne restava. Ogni nuovo torto che si scopriva

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