Novelle e paesi valdostani. Giacosa Giuseppe

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Novelle e paesi valdostani - Giacosa Giuseppe

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un fanciullo ad accorarsi così. Egli sarebbe [pg!32] ben corso ad aiutare un altro, il primo venuto, anche un nemico quando lo avesse saputo alle sue strette. Oh come sarebbe corso! Che zelo di carità lo infervorava! Avrebbe affrontato mille pericoli per salvare un convalligiano, perchè la valle è una patria stretta e fa parentela. E poi egli era vittima delle guardie, e contro le guardie non si doveva forse dar tutti? Ogni idea che gli veniva gli durava un gran pezzo, non già che la rivolgesse per vederne il fondo o se ne compiacesse; era l'idea che stava lì ferma a martellarlo, picchiando sempre colle stesse parole, e le più testarde erano le cattive. A volte chiudeva gli occhi e pareva dormisse, poi li riapriva di scatto per guardarsi dattorno. E nessuno veniva. Che tempo era passato? Benchè i valloni fossero già scuri, la valle stava tutta sdraiata al sole come una pigra, e le acque seguitavano le loro chiacchere da comari. Ma il soffio freddo del tramonto era imminente. Egli lo vide salire, correre la vallata come un brivido febbrile. Le foreste se lo comunicavano d'una in altra, i rami verdi scuri degli abeti lontani prendevano un fuggevole riflesso argentino che li lasciava più scuri ed immobili, i fieni diventavano grigi un istante curvandosi, e si risollevavano più rigogliosi, ed il soffio passava e saliva sempre rapidissimo. Gli abeti più vicini agitarono le punte [pg!33] come volessero ricusare la notte, i prati più vicini ondeggiarono in disordine; tutti i suoni, tutte le voci della valle furono ad un tratto portati in alto da un'ondata echeggiante; il ferito ebbe un fremito gelido, e poi tornò la calma ridente di prima.

      Ma il segno era dato! Quella potente onda di suoni aveva chiusa come in un crescendo finale, la grande sinfonia diurna; il sole aveva un bel risplendere ancora, la giornata era finita. La crosta del nevato rassodandosi mandò mille piccoli scricchiolii secchi come scatti di molla, tutte le note allegre dell'acqua tacquero, tutti i rigagnoli stagnarono, la neve mutò la sua mollezza umida in durezza cristallina, e l'aria diventò fredda, tagliente, acerba come un nemico.

      Già da qualche minuto un sospetto sordo e confuso si era insinuato di mezzo ai pensieri del Rosso. Egli lo avvertiva ad un senso di amarezza acuto, ma non se ne rendeva ragione e non sapeva dargli nome nè corpo. Più che un sospetto, era una tentazione. Rifacendo il cammino che doveva seguire il Balmet, battendo mentalmente a tutti gli usci dei casolari, discutendo fra il timore e la speranza tutte le probabilità di soccorsi, era giunto a dimenticare il suo stato presente ed il dolore delle piaghe, e gli pareva di essere egli sano e disposto, che [pg!34] cercasse aiuto pel compagno ferito. Ma nella sua corsa gli tornava, con una insistenza sempre crescente, il pensiero dei tre camosci uccisi immobili laggiù sulla neve terrosa della valanga. Una bella preda per un uomo solo! Tre camosci! Chi lo impediva di nasconderli in qualche cavo di roccia, o sotto la neve, e di venir poi la notte caricarli sul ciuco ed a tirarne e serbarne tutto il profitto? Anche respingendola, quell'idea lo faceva sorridere di compiacenza. E quando il primo soffio gelato lo richiamò bruscamente alla coscienza de' suoi dolori, quell'idea non lo lasciò più un istante; ma non era sua, era del compagno e sentiva che anche all'altro doveva esser venuta, che anche l'altro se ne sarebbe compiaciuto, che l'avrebbe respinta, e poi discussa e poi seguita. Allora il sospetto dell'abbandono gli si infisse nella mente e la tardanza del soccorso lo mutò in certezza. In un attimo si vide perduto e la disperazione gli diede una forza immensa. Reggendosi col braccio sano, puntando a forza la gamba sana, si trascinò in mezzo a dolori laceranti fino all'orlo del burrone, e si affacciò all'abisso ghignando di terrore. I camosci erano sempre immobili sulla valanca. Rinacque!

      Che orribile sogno aveva fatto! Ora la salvezza era certa e vicina. Gli pareva perfino di sentire le voci ed i passi dei giungenti, guardava [pg!35] intensamente qua e là tremando per l'imminenza della gran gioia. Che grido avrebbe mandato a vederli! Tutta l'anima sua sarebbe stata per quei valorosi, tutta la sua vita. Ancora un minuto, un minuto... eccoli! Ma come? Di là? Da quella parte?

      Su dal burrone gli era giunto il rumore di pietre smosse e rotolanti. Guardò di nuovo. Due dei camosci erano scomparsi ed un uomo, il Balmet di certo, stava curvo sull'ultimo per caricarselo a spalle. Non lo ravvisò per l'ombra e la distanza, ma non poteva essere che lui. All'urlo ruggente ch'egli mandò a quella vista, l'uomo levò la testa, guardò in alto, poi riprese l'opera frettoloso. Dopo un istante la valanca fu tutta deserta.

      L'ombra era venuta, tutta la valle era scura, il sole fuggiva dai prati e dalle foreste e metteva sulle ghiacciaie all'intorno dei colori dolcissimi di rosa e dei riflessi di un azzurro intenso. Poi anche le ghiacciaie allividivano, i raggi orlavano le supreme vette e dileguavano, e solo laggiù in fondo sul Monte Bianco duravano le carezze della luce. I dorsi nevosi furono ancora per qualche minuto più oscuri che il cielo, ma poi questo prese un colore cinerino e la neve spiccò più netta e più luminosa di esso; poi nel cielo sereno brillarono le stelle, la via lattea [pg!36] fu la maggiore bianchezza e la valle rimpicciolita perdette ogni forma.

      La gran conca di Cogne fu muta e nera come un sepolcro.

      Il ferito cominciò a singhiozzare come un fanciullo, poi, furente, si diede ad urlare con voce di dannato. Chiamava, imprecava, pregava, mandava suoni senza nome, fremeva, taceva sfinito, ricominciava più feroce, finchè gli urli tornarono grida umane, e le grida lamenti acutissimi, ed i lamenti gemiti spossati e sommessi. Poi la voce gli mancò anche a quelli. Allora si mise a guardare nell'ombra dinanzi a sè, immobile, istupidito.

      La mattina era ancora vivo: il giorno gli tornò qualche speranza remota, e sovratutto una lucidezza nettissima di mente. Del Balmet era inutile sperare; ma le guardie fatto il colpo erano forse discese a denunziarlo e l'autorità sarebbe certo salita a cercare di lui. Volendo serbarsi in vita per quell'attesa, tornò a trascinarsi fino al luogo dove il Balmet lo aveva deposto e dove egli la sera prima aveva lasciato quel po' di provviste che aveva. Fu una fatica lunga e dolorosa.

      Là addentò senza voglia la carne salata, bevve qualche sorso di acquavite e gli parve tornare in forze. Le piaghe non davano sangue ma cuocevano gonfiando, la coscia specialmente era divenuta grossa e tirava la pelle fino a crepolarla. [pg!37] Gran lavoro seguiva là dentro! Sentiva tutti i nervi stirarsi, irrigidirsi, poi riallentarsi come corde spezzate, ed una irrequietudine invincibile ed un senso torpido di gravezza gli davano bisogno di muoversi e gli impedivano ogni movimento. La mattinata fu serena ed il meriggio cocente. Il calore del sole gli faceva un gran bene e poi non gli pareva di essere così solo in mezzo alla allegria dei suoni. Ma le ore passarono, passarono senza che alcuno giungesse. Un branco di camosci scese placidamente dal ghiacciaio, saltellò sul nevato. Alcuni dei più arditi si accostarono a lui, fiutarono insospettiti che fosse quel corpo scuro e poi rinfrancati dalla sua immobilità gli furono quasi sopra finchè egli con un gesto del braccio sano li impaurì e li mise in fuga. Erano forse gli scampati del giorno addietro.

      A poco a poco una stanchezza molle, quasi dolce lo aveva preso per tutte le membra, non soffriva più che di sete, perchè l'acquavite non faceva che stimolarlo ed egli aveva finito di raspare tutta la neve che gli stava a portata; ma nulla al mondo gli avrebbe fatto tentare un movimento che lo disadagiasse. Prese un sassolino e lo tenne in bocca per promuovere la saliva e intanto seguitava a guardare diritto dinanzi a sè nell'aria e per la valle dove il verde dei prati [pg!38] gli riposava la vista. Non sperava più, non si lagnava più, non pensava più. Era in uno stato delizioso di morbidezza e se fosse venuta gente a levarlo di là, li avrebbe pregati di lasciarlo solo così com'era ed immobile.

      Verso l'ora del tramonto qualche leggiera nuvola spuntò dalla parte del Gran Paradiso; poco dopo altre nuvole scavalcarono le vette da ogni lato e si allargarono radendo la montagna, strisciando lungo le roccie con serpeggiamenti lascivi, lacerandosi alle foreste. Altre sbucavano dai valloni con aria sospettosa: esitavano un istante come paurose di essere avvertite e poi correvano a congiungersi alla gran fiumana grigia che oscurava il cielo sulla valle. Nei seni, delle nebbiuzze sottili filavano su per le strette velocissime, come succhiate da qualche enorme bocca aperta nel cielo. Poco alla volta la conca fu chiusa tutto intorno, come da un immenso coperchio; solo laggiù sul Monte Bianco rideva una gaiezza di cielo sereno con luci azzurre color di viola, di rosa e di un giallo ardente.

      Il Rosso fissava quel solo punto luminoso con una intensità da maniaco. Gli pareva che tutto quell'accumularsi

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