Una sfida al Polo. Emilio Salgari

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Una sfida al Polo - Emilio Salgari

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la città?

      — A menadito.

      — Andate subito, mentre io rimango di guardia. Sono appena le nove ed in qualche luogo potrete pescare qualche medico.

      — Vado e torno subito. —

      Il maestro americano era appena uscito, quando il boxer canadese udì un profondo sospiro uscire dalle labbra del signor di Montcalm.

      — Finalmente!... — esclamò il brav'uomo. — Cominciavo a diventare inquieto.

      Speriamo che anche mister Torpon torni presto in sè. —

       Indice

      Il canadese, forse più robusto dell'americano, o forse ferito meno profondamente, dopo quel sospiro, aveva alzate le braccia, quindi, a poco a poco, aveva aperti gli occhi fissandoli sul suo maestro di boxe, con un misto di stupore e di ansietà.

      Il pallore, che poco prima copriva il suo viso, svaniva rapidamente e le sue gote si imporporavano lievemente.

      — Non muovetevi, signor di Montcalm, — gli disse Hill. — Finchè non giunge il medico voi dovete rimanere assolutamente immobile, poichè quantunque io me ne intenda un po' di ferite, non ho studiato come quei signori che escono dall'università.

      — Ma che cosa è successo, mister Hill? — chiese il ferito, con voce abbastanza robusta.

      — Per centomila caimani!... — esclamò il boxer, un po' spaventato. — Non vi ricordate più dunque del duello all'americana che avete sostenuto con mister Torpon? Avete perduta la memoria, mio caro allievo? —

      Il canadese sgranò gli occhi, poi si battè la fronte, mossa che gli fece fare una smorfia, strappatagli dal dolore, poi chiese con voce alterata:

      — L'ho ucciso? —

      Il maestro di boxe indugiò un momento prima di rispondere.

      — Signor di Montcalm, — disse poi, — bisogna proprio credere che esista un destino.

      — Perchè dite questo, mister Hill?

      — Perchè non può essere stato che il destino, quel destino che vi perseguita con un accanimento incomprensibile in tutte le vostre lotte, a guidare le vostre mani ed i vostri coltelli in modo da ferirvi reciprocamente nello stesso punto e probabilmente nelle medesime condizioni di gravità.

      — Che cosa dite?

      — Che vi siete accoltellati reciprocamente, senza uccidervi.

      — Infame destino!...

      — Non infuriatevi, signor di Montcalm, — disse il boxer. — Non dimenticate che siete ferito e che non so dove la punta del coltello del vostro rivale sia giunta.

      — Sono ancora vivo.

      — Lo vedo, corpo di centomila bombe!... Diavolo!... Ci vorrebbe altro che i miei allievi morissero così presto!

      — Dov'è Torpon? — chiese il canadese, coi denti stretti.

      — Nella stanza vicina e non è ancora tornato in sè. —

      Il signor di Montcalm si passò per la seconda volta una mano sulla fronte, senza fare smorfie questa volta, poi disse con voce un po' rauca:

      — Avesse almeno ucciso me!...

      — Ah no, signor mio!... C'è sempre tempo a morire.

      — Eppure bisogna finirla e romperla con questo perverso destino che ci perseguita con tanto accanimento.

      — Udiamo, signor di Montcalm.... ma ditemi prima se soffrite a parlare.

      — Niente affatto. Mi pare di non essere nemmeno ferito, se non mi agito.

      — Possedete una fibra meravigliosa.

      — Dite dunque mister Hall.

      — L'amate proprio alla follìa quella indiavolata americana? —

      Il canadese lo guardò per qualche istante, poi disse:

      — Non so.

      — Non ci sarebbe, invece d'una vera passione, un po' di puntiglio?

      — Può darsi.

      — Io, se fossi nei vostri panni, me ne andrei a fare un viaggio nel nostro vecchio paese, nella nostra mai dimenticata Francia e abbandonerei gli occhi azzurri ed i capelli biondi a quell'ippopotamo di yankee.

      A Parigi troverei facilmente altre donne che mi consolerebbero e che me la farebbero dimenticare ben presto.

      — È troppo tardi, — rispose il signor di Montcalm. — Tutti gli sportmen degli Stati dell'Unione e del Canadà tengono gli occhi fissi su di noi, e se io abbandonassi la partita, proprio ora, non ci farei una bella figura, mio caro maestro. Si potrebbe dire che io mi sono ritirato per tema di prendermi un'altra coltellata o di ritentare qualche altra prova.

      No, mai!...

      — Eppure quell'americana, come moglie, mi farebbe paura. Quella non è una donna, è una diavolessa. —

      Il signor di Montcalm stava per dare qualche risposta, quando si udirono delle porte ad aprirsi e poi si vide entrare mister Patterson seguìto da un omiciattolo rotondo come una palla, con due gigantesche basette che gli scendevano fino alle spalle e gli occhi nascosti da un paio d'occhiali montati in oro.

      — Ecco il dottore, — disse il maestro americano. — Come va mister Torpon?

      — Non è ancora tornato in sè, — rispose Hill.

      — Occupatevi prima del vostro allievo, — disse il signor di Montcalm. — Come vedete, non sto troppo male e posso attendere il turno.

      — E me ne congratulo con voi, signore, — disse Patterson. — Che fibre!... Dottore, passiamo nell'altra stanza. —

      L'omiciattolo gettò su una sedia il lucente cilindro ed il soprabito, lanciò sul canadese un rapido sguardo facendo un gesto incomprensibile, e seguì il maestro americano.

      — Forse credeva di trovare dei moribondi, — disse mister Hill, ridendo, — mentre ne trova uno che sta chiacchierando tranquillamente.

      Non abusate però delle vostre forze e della vostra straordinaria energia, signor di Montcalm. La febbre sopraggiungerà e quella brutta bestia talvolta giuoca dei pessimi tiri.

      Cacciatevi sotto e aspettiamo quella boccia di carne vivente. —

      La visita a mister Torpon durò una mezz'ora.

      — Tutto bene, — disse Patterson, entrando nella

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