Saving Grace. Pamela Fagan Hutchins
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Ding. Finalmente. Mi fermai a riprendere fiato. Contai fino a dieci, presi un’ultima boccata d’aria per darmi coraggio e mi diressi attraverso delle luci soffuse al bar. Mi affiancò l’uomo di cui avrei potuto annusare la mascolinità a metri di distanza. Il calore mi invase le guance. Il mio motore si accese. Proprio l’uomo che cercavo.
Nick aveva origini ungheresi e doveva ringraziare i suoi antenati gitani per i suoi colori scuri — gli occhi, i capelli, la pelle — e per gli zigomi pronunciati. Aveva una presenza animalesca che amavo, non la classica bellezza tradizionale. Aveva un naso piuttosto largo, e curvo, dopo averlo rotto così tante volte. Una volta mi aveva raccontato che i suoi incisivi storti erano dovuti ad una mattinata di surf andata male. Ma era affascinante in un modo che non si può spiegare e, dagli sguardi femminili che spesso notavo, non ero l’unica a pensarla così.
Si accorse di me. “Ciao, Elena.”
“Ciao, Paride,” risposi.
Sbuffò. “Oh, tutto ma non il tuo Paride. Paride era un rammollito.”
“Mmmmmm. Menelao allora?”
“Mm, birra, per favore.”
“Sono abbastanza sicura che non ci fosse nessuno chiamato “birra” nella storia di Elena di Troia,” dissi, storcendo il naso con aria superiore.
Nick si rivolse al barista. “Una St. Pauli Girl.” E finalmente sfoggiò il suo tipico sorriso, facendo scomparire tutta la tensione accumulata in ascensore. “Ne vuoi una?”
Mi serviva più di una boccata d’aria per prendere coraggio. “Una Amstel Light.”
Nick ordinò per entrambi. Il barista gli allungò le due birre ricoperte da una patina d’acqua e si asciugò le mani. Nick mi passò la mia, arrotolandogli un tovagliolo intorno e facendo combaciare le punte con la precisione militare che amavo. Nick canticchiava sottovoce, dondolando la testa. Honky-tonk Women dei Rolling Stones.
“Mi sa che mi piaci più a Shreveport che a Dallas,” dissi.
“Grazie, credo. E a me piace vederti felice. Immagino sia stato un anno duro per te, avendo perso i tuoi genitori e tutto quanto. Un brindisi a questo sorriso,” disse, allungando la sua bottiglia di birra verso di me.
Il brindisi mi aveva quasi fatto fermare il cuore. Ci aveva preso sul fatto che era stata dura, ma preferivo che l’argomento rimanesse sotterrato come i miei genitori. Brindai con lui, ma non riuscii a guardarlo negli occhi mentre lo facevo. “Grazie, Nick, davvero.”
“Vuoi giocare a biliardo?” chiese.
“Perché no.”
Ero su di giri: la ragazza del primo anno che esce con il capitano della squadra di baseball. Entrambi amavamo la musica, così parlammo di generi musicali, band – la sua vecchia band, Stingray, e “vere” band –, il mio corso di musica alla Baylor, e di MDMA, o Mania Del Musicista Arrogante. Davanti ad un susseguirsi di birre, ci scambiammo aneddoti sugli anni del liceo, e mi raccontò di essersi una volta occupato di una passerotta malata.
“Una passerotta malata?” chiesi. “Sicuro siano affari miei? Palla otto in buca.” Colpa mia.
Riprese le palle dalle varie buche e le riposizionò nel triangolo, mentre io strofinavo il gesso blu sulla punta della mia stecca e soffiavo via la polvere in eccesso. “Sei un po’ di strette vedute. La passerotta è un uccello, Katie.”
Ripensai a come aveva usato il mio vero nome per una volta, e a come mi aveva fatto stare bene.
“Stavo surfando, e trovai una passerotta che non riusciva a volare. L’ho portata a casa con me e me ne sono preso cura fino a che non è stata ora di liberarla.”
“Oh, mamma mia! Puzzava molto? Ti ha beccato? Scommetto che tua madre fosse contentissima!” Parlavo a vanvera, un susseguirsi di esclamazioni. Che imbarazzo. Sembravo una ragazzina viziata sotto acidi. “Era calma, inizialmente era sotto choc, ma col passare dei giorni si agitava sempre di più. Avevo quattordici anni e mia madre era solo felice che non stessi in camera mia a prendermi cura di una vera passerotta, quindi le stava bene. Iniziò a puzzare davvero tanto dopo alcuni giorni, però.”
Aprii. Le palle schioccarono e rimbalzarono in tutte le direzioni, prima che una piena ruzzolasse dentro una buca laterale. “Piene,” dissi. “Quindi, tua madre ti aveva già beccato ad avere a che fare con una passerotta, eh?”
“Ehm, non ho detto questo...” disse, balbettando fino a tacere.
Ero più innamorata che mai.
Damn, I Wish I Was Your Lover stava passando in sottofondo. Non sentivo quella canzone da anni. Mi fece pensare. Per mesi, avevo combattuto l’impulso di saltargli al collo e stringerlo fra le braccia, consapevole del fatto che la maggior parte dei colleghi l’avrebbe giudicato inappropriato sul luogo di lavoro. Una mancanza loro, secondo me. Misi gli occhi sulla grande terrazza fuori dal bar e pensai che, se fossi riuscita a portare Nick là fuori, avrei finalmente potuto farlo, lontana da occhi indiscreti.
Credevo di avere delle buone possibilità di riuscita, fino a che un collega non entrò. Tim era un consulente dello studio. “Consulente” significava che era troppo vecchio per essere chiamato “associato”, ma che non era un mago degli affari. In più, teneva i pantaloni almeno due centimetri più in alto del dovuto. Lo studio non l’avrebbe mai promosso a socio. Nick ed io ci guardammo negli occhi. Fino ad ora, eravamo stati due radio ad onda corta stazionate sullo stesso canale, perfettamente sintonizzate. Ma adesso la sintonia si era trasformata in interferenza e il suo sguardo si è offuscato. Si era irrigidito e, piano piano, si era allontanato.
Fece un cenno a Tim. “Ehi, Tim, siamo qua.”
Tim ci salutò da lontano e attraversò il bar fumoso. Tutto si stava muovendo a rallentatore nel suo avvicinarsi, pesante passo dopo pesante passo. I suoi piedi echeggiavano ogni volta che colpivano il pavimento, risuonando no… no… no… O forse lo stavo dicendo io a voce alta. Non ne ero sicura, non che facesse alcuna differenza.
“Ehi, Tim, che bello. Prendi una birra, giochiamo a biliardo.”
Oh, ti prego non dirmi che Nick ha appena invitato Tim a stare qui con noi. Avrebbe potuto rifilargli un “ehi come stai divertiti io stavo andando via”, o qualsiasi altra cosa, ma no, ha chiesto a Tim di unirsi a noi.
Tim e Nick mi guardarono, aspettando la mia conferma.
Mi rifugiai in una breve fantasia, dove eseguivo un impeccabile calcio volante, colpendo Tim nella pancia e facendolo cadere per terra, dove rimaneva con i conati di vomito. A cosa erano serviti i tredici anni che mio padre mi aveva costretta a fare karate, se non potevo usarlo in momenti come questi? Ogni donna dovrebbe sapersi difendere, Katie mi diceva mio padre, mentre mi accompagnava al dojo.
Forse questa non era tecnicamente autodifesa, ma l’arrivo di Tim aveva infranto le mie speranze di saltare addosso a Nick, e tutto quello che ne sarebbe seguito. Non era forse un motivo valido?
Scacciai il pensiero. “In realtà, Tim, perché non prendi il mio posto? Sono stata tutta la settimana in aula, sono sfinita. Iniziamo presto domani. È l’ultimo giorno, il gran finale dell’équipe Hailey & Hart.” E passai a Tim la mia