Saving Grace. Pamela Fagan Hutchins

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Saving Grace - Pamela Fagan Hutchins

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      Mi era toccato un “Buonanotte,” senza aggiungere né ElenaKatie.

      Presi un’altra Amstel Light al bar per il tragitto fino alla mia stanza.

      Due

      Hotel Eldorado, Shreveport, Louisiana

      14 agosto 2012

      Quindici minuti dopo, avevo tirato fuori una bottiglia di vino dal minibar. Presi in mano il mio iPhone con l’intento di mandare un messaggio. Scrivere da ubriachi, mai una buona idea. Magari ci fosse stato un poliziotto lì ad arrestarmi: mi avrebbe salvata da quello che stava per succedere.

      A Nick: “Mi hai scaricata per Tim. Mi sento sola.” A quel punto avrei anche potuto aggiungere, “Con amore, la tua pazza stalker.”

      Nessuna risposta. Aspettai cinque minuti, mentre finivo un bicchiere di vino. Riempii di nuovo il bicchiere. Rilessi i trecento messaggi di Emily che chiedeva dove fossi, ai quali la mia riposta era stata “Nick!!! Scusami. Ci sentiamo dopo.”

      Mandai un altro messaggio a Nick. “Ci sei? Sei ancora con Tim?”

      “Ehi,” fu la sua riposta.

      Un altro messaggio, pochi secondi dopo: “Dobbiamo parlare.”

      Buon segno o cattivo segno, mi chiedevo. “Parlare” è un eufemismo per “non parlare”?

      Risposi a Nick: “Ok. Dove, quando?”

      “Lunedì, ufficio.”

      Un pugno allo stomaco. Forza, Katie, forza. Non farti sfuggire questa occasione. C’è ancora speranza. “Non è giusto. Adesso? Scegli un posto.”

      “Cattiva idea. Ho bevuto.”

      “Me la caverò. Camera 632.”

      Nessuna risposta. Pensa pensa pensa pensa pensa pensa pensa. Non ha detto di no. Non ha detto di sì. Potrei riscrivergli e chiedere una risposta chiara, ma potrebbe essere quella sbagliata. Supponi che sia un sì e ricomponiti, ragazza.

      Ispezionai l’austera camera d’hotel, il piumone scadente, ingrigito dal lavaggio continuo in lavatrici industriali, il colore sbiadito delle tende risalente agli anni in cui la stanza era per fumatori, una stampa da catalogo raffigurante una barca, appesa sulla carta da parati metallizzata. Non era esattamente ciò che ci si aspetta per un interludio romantico. Misi a posto ciò che riuscivo, tra me e la stanza, e cercai di prepararmi per assumere un comportamento sobrio.

      Niente Nick. Camminavo avanti e indietro. Mi lamentavo. Controllavo i messaggi. E poi, improvvisamente, sapevo che era lì, l’avevo sentito con il mio Nick-radar extrasensoriale.

      Sbirciai dallo spioncino. Sì, era lì, facendo ciò che facevo io, ma dall’altro lato di quel pezzo di legno massiccio. Però non potevo aprire la porta, o avrebbe scoperto che stavo lì in piedi a guardarlo.

      Alzò la mano per bussare. La abbassò. Si girò per andarsene; tornò. Come fosse un artiglio, si passò la mano fra i capelli e chiuse gli occhi.

      Bussò alla porta. Trattenni il respiro mentre dicevo una breve preghiera. “Ti prego Dio, aiutami a non mandare tutto all’aria.” Probabilmente non la preghiera meglio concepita o eseguita già pronunciata. Aprii la porta.

      Nessuno dei due disse nulla. Feci un passo indietro e lui entrò, stringendo un tovagliolo del bar nella sua mano sinistra. Passava invece la mano destra ancora fra i capelli, un tic nervoso che non avevo mai notato prima di questa sera.

      Mi sedetti sul letto. Lui si sedette in una sedia sotto la finestra.

      “Hai detto che dobbiamo parlare,” lo imboccai.

      Si concentrò sul suo tovagliolo stropicciato per un bel po’. Quando alzò lo sguardo, indicò prima lui e poi me e disse, “La mia vita è troppo complicata adesso. Mi dispiace, ma questa cosa non può succedere.”

      Queste non erano le parole che avevo sperato di sentire. Forse erano grossomodo quelle che mi aspettavo di sentire, ma non per questo avevo perso la speranza. La mia faccia andava a fuoco. Conto alla rovescia alla fusione.

      “Con ‘questa cosa’ suppongo tu ti riferisca a una qualche ‘cosa’ fra noi due? Ovviamente non può succedere. Sono una socia dello studio.” Ascoltavo la mia voce come se venisse da lontano. Altezzosa. Distante. “So che a volte sembra che stia flirtando, ma faccio così con tutti, Nick. Non preoccuparti. Non ci sto provando con te.”

      Potevo quasi intravedere il segno sul suo volto allo schiaffo delle mie parole.

      “Ti ho sentita parlare al telefono con Emily quando sei arrivata, oggi pomeriggio.”

      Inquietante. “Di cosa stai parlando?”

      “Sono passato davanti alla tua camera. La porta era socchiusa, Ti ho vista. Ti ho sentita.”

      Protestai, “Come sapevi che ero io?”

      “Riconosco la tua voce. Stavi parlando di me. Ho sentito il mio nome. Mi dispiace di aver origliato, ma non sono riuscito a trattenermi. Mi sono fermato e ho ascoltato.”

      Provai ad interromperlo, ma andò avanti.

      “Hai detto,” e, oh, quanto non avrei voluto sentire ciò che stava per dire, “che non riuscivi a credere quanto fossi attratta da me. Che ti sentivi in colpa perché pensavi più a me che al lavoro o a ciò che è accaduto ai tuoi genitori…” Nick si mangiava le parole, faticava a parlare. “Hai detto ad Emily che non riesci a fare a meno di essere innamorata di me.”

      Oddio. Mamma mia. Il sangue non mi arrivava più alla faccia. Avevo detto quelle cose ad Emily per telefono. Mi aveva chiamata per raccomandarsi che andassi alla conferenza e io avevo portato la conversazione su Nick. Era una cosa così normale che l’avevo dimenticata. Diavolo, così normale che probabilmente lei neanche mi stava ascoltando. Improvvisamente, mi resi conto di quanto ero ubriaca e la stanza iniziò a girare.

      Forzai una risata acuta. “Sì, ho menzionato il tuo nome, ma questo non è ciò che ho detto.”

      “Invece sì,” mi interruppe. “Non sono un idiota. So quello che ho sentito.”

      “Beh, lo stai interpretando male,” insistetti. “Non ti sto addosso, Nick. Per quello che ne so, sei ancora sposato. E lavoriamo insieme. Mi dispiace se ti ho messo a disagio. Proverò a non farlo di nuovo.”

      “Non mi hai messo a disagio.” Si interruppe e passò una terza volta la mano fra i capelli, fissando il tovagliolo di nuovo. C’era scritto qualcosa su quel maledetto coso. “È solo che…” Sospirò, e si fermò.

      “Solo che cosa?”

      Nessuna risposta. Vorrei poter dire che è solo per colpa dell’alcol che esordì con sarcasmo, ma è così.

      “Perché non interpelli il tuo tovagliolo magico per sapere cosa dovresti dire?”

      Si incupì. “Sei stata scortese.”

      Iniziavo

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