Sumalee. Storie Di Trakaul. Javier Salazar Calle

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Sumalee. Storie Di Trakaul - Javier Salazar Calle

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e tre ridemmo di gusto. Era chiaro che durante questo periodo che erano stati negli Stati Uniti, non avevamo perso la complicità che avevamo sempre avuto nei nostri progetti insieme in Spagna. Soprattutto quella che avevo con Josele.

      I bei tempi si stavano avvicinando.

      Il giorno dopo uscimmo insieme per una passeggiata per la città. Volevo davvero vedere che atmosfera si respirava in questo nuovo Paese.

      Siccome volevo sentirmi utile, presi i sacchi della spazzatura per buttarli via, ma Josele mi intercettò all'ingresso di casa.

      «Ma dove vai con la spazzatura?»

      «A buttarla via. Ho visto un cassonetto là fuori.»

      «Santo cielo, dobbiamo spiegarti tutto. Qui ci sono impianti di trattamento dei rifiuti in ogni blocco. Butti la spazzatura nei condotti della cucina sotto il microonde e andrà nel posto giusto. Come la spazzatura pneumatica in Spagna.»

      «Grandioso ... e gli appartamenti al piano terra?»

      «La lasciano davanti alla porta d'ingresso del servizio e la ritira il personale delle pulizie. Non si porta molto spesso la spazzatura nel cassonetto.»

      «E viene riciclata?»

      «Ci sono contenitori colorati per riciclare se vuoi, ma quasi nessuno lo fa.»

      «Capito. Tutta la spazzatura nel condotto della cucina.»

      Buttai via i due sacchetti e uscimmo in strada. Iniziammo facendo un giro per il nostro quartiere, Tanglin. I singaporiani che vedevo per strada mi sembravano per lo più di origine orientale, cinesi, soprattutto, anche se c'erano anche molte persone di aspetto indiano e parecchie che non riuscivo a localizzare

      «Sono di origine malese», chiarì Josele. «Qui sono persone più tranquille e chiuse rispetto agli europei. Sono anche molto severi con le leggi. Ci sono infiniti divieti. Alcuni possono essere scioccanti per noi e, se non li rispetti, vieni punito senza esitazione. Tutti imparano presto, con le buone o con le cattive, ad essere rispettosi.»

      «Questa cosa dell'ordine mi piace.»

      «Beh, lo sappiamo. Quadrato come sei ...»

      È vero che lo ero adesso, ma non ero sempre stato così. (Capisco che sia stato il contrario. Che prima fosse quadrato e ora no)

      Andammo a destra, lasciandoci dietro un passaggio pedonale ricoperto di piante piene di fiori viola. Poco dopo raggiungemmo una stazione della metropolitana. Cambiò il tipo di costruzione e sul nostro marciapiede comparvero case unifamiliari, come se si trattasse di una zona di villette bifamiliari, ma ognuna diversa dalla precedente, sia nei materiali che nel design. Un po' più avanti c'era un incrocio con un'altra strada importante chiamata Bukit Timah che correva parallela ad un ruscello e con un ponte sopraelevato.

      «A sinistra c'è il centro commerciale di cui ti abbiamo parlato, il Coronation Shopping Plaza», indicò Josele. «A destra i giardini botanici.»

      «Andiamo a destra allora, ci sarà tempo per vedere i negozi», risposi.

      Proseguimmo fino a raggiungere l'ingresso principale del parco botanico o, almeno, uno degli ingressi. Nessuno sapeva quanti fossero. Mi avvicinai per curiosità per leggere le informazioni per entrare. Era aperto dalle cinque del mattino a mezzanotte tutti i giorni dell'anno! Inoltre, era gratuito a meno che tu non volessi vedere la parte delle orchidee. Questo sì che era davvero un buon servizio di assistenza clienti.

      «Perché non entriamo qui?», proposi cercando di convincere Josele e Dámaso ad entrare per dare un'occhiata.

      «Ci sarà tempo per vedere le cose in modo più approfondito. Per il primo giorno, è meglio n giro più generico. Inoltre, Josele lo conosce già», affermò Dámaso.

      «Sei venuto a vederlo?»

      «Fermati, bestia», rispose subito Josele. «Non devi farti un'idea sbagliata. I fiori mi potrebbero piacere per scattare foto fantastiche, ma poco altro. Sono venuto perché mi sono messo in contatto con una donna giapponese che era molto bella e ho pensato che portandola qui avrei fatto colpo. E, in effetti, è stato così.» Ci fece l'occhiolino e ci venne da ridere.

      La verità è che avevano tutta la ragione del mondo, c'era tempo per vedere tutto, quindi cedetti senza lamentarmi molto.

      «Guarda!», gridò Dámaso. «L'autobus sta arrivando, potremmo andare a vedere Little India, il quartiere indiano della città.»

      Josele ed io pensammo che fosse una buona idea e trenta minuti più tardi stavamo scendendo dall'autobus in un quartiere completamente diverso. Lì la distribuzione demografica era completamente diversa, con la maggioranza di indiani (o bengalesi, perché la verità è che non ero in grado di distinguere gli uni dagli altri). La prima cosa che attirò la mia attenzione furono le centinaia di indiani seduti per terra in un parco, in piccoli gruppi, a chiacchierare tra loro. Secondo quanto mi raccontarono i miei amici, lo facevano ogni domenica. Era come il loro punto d'incontro per vedersi e raccontarsi cosa era successo durante la settimana. Naturalmente, non si vedeva nemmeno una donna. Solo uomini. Curioso. Tradizione? Maschilismo? Le donne si incontravano altrove? Continuammo a camminare e ci trovammo davanti ad una chiesa, la Foochow Methodist Church come si leggeva su un cartello all'ingresso, che mi sorprese essendo nell'area indiana, dove ci si aspetta di vedere i templi indù. Questo dimostrava l'unicità di questo posto. Vedemmo anche dei ristoranti, questo sì, tipici indiani e, alla fine, arrivammo al Mustafá Center. Era un centro commerciale abbastanza grande aperto 24 ore al giorno. Il marciapiede opposto era fiancheggiato da case a due piani che avevano per lo più ristoranti, gioiellerie e accademie di hindi. C'era anche un tempio chiamato Arya Samaj. Questo sembrava indù, ma non saprei dirlo con certezza. All'ingresso c'erano i manifesti di due uomini: uno barbuto dall'aria bonaria e l'altro con un turbante e un'aureola intorno come se fosse un santo. Ad entrambe le estremità della strada si vedevano sullo sfondo i grattacieli della città, che contrastavano con questa zona di case basse. Tutto era molto diverso da quello che conoscevo.

      Josele, che era sempre stato più curioso delle cose ed era anche appassionato di fotografia ed era sempre alla ricerca di location uniche per dare sfogo alla sua vocazione, mi spiegò che queste case si chiamavano shop houses, case-botteghe in spagnolo. Erano vecchi edifici con il piano superiore per la residenza e il piano inferiore per l'attività di famiglia, solitamente laboratori, ristoranti o negozi. Apparentemente erano molto apprezzati, non solo per il loro valore storico o per la loro bellezza, ma anche per la posizione privilegiata che avevano. Venivano affittati da tremilacinquecento a quasi ventimila dollari al mese, a seconda della loro ubicazione e condizione, e il prezzo di vendita si misurava in diversi milioni di dollari di Singapore. Una fortuna.

      Entrammo nel centro commerciale per vedere che tipo di negozi c'erano. Si estendeva su due isolati e aveva una passerella di vetro al primo piano sopra la strada che collegava i due blocchi di edifici. All'interno c'erano negozi di ogni genere: supermercato, farmacia, cosmetici, abbigliamento sportivo, elettronica, posta e gioiellerie. Avevano anche un servizio di gestione dei visti per indiani e malesi e uno sportello di cambio valuta. Un euro equivaleva a quasi un dollaro e mezzo di Singapore. Avevo ottenuto un cambio leggermente migliore in Spagna.

      All'ora di pranzo, dato che non c'era altra possibilità, mangiammo in uno dei tanti ristoranti indiani della zona. Uno che avrebbe dovuto specializzarsi nel cibo dell'India settentrionale. Come se potessi distinguerla da quella del sud! Seguendo il consiglio di Josele

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