Tranquilla Cittadina Di Provincia. Stefano Vignaroli
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Il ragazzo annuì, indicando che aveva capito.
«E voi, signor Giorgio e signora Elisabetta, non dovete sentirvi in dovere di stare insieme sotto lo stesso tetto solo per salvare una facciata dietro la quale non c'è nulla. Meglio essere separati e sereni che insieme ma in conflitto. Un figlio è molto più tranquillo sapendo che i propri genitori vivono ognuno una vita autonoma, che non dover essere testimoni di strane situazioni che si verificano in casa. Insomma, o vi volete bene e vivete la vostra vita coniugale, oppure pensate da subito alla separazione e a un eventuale divorzio.»
Non ho mai saputo, e con tutta sincerità neanche mi interessa, come fossero andate a finire le relazioni tra Thomas e Samantha e tra Giorgio ed Elisabetta. L'importante per me era aver visto la mia squadra all'opera e aver appurato che potevo dormire sonni tranquilli e cominciare a pensare esclusivamente alla mia maternità.
Il ventuno Marzo diedi alla luce una splendida bambina: Aurora.
1 LA FONDAZIONE DI AESIS
297 A.C.
L'uomo che stava arando i fertili campi sulla parte declive della collina esposta a oriente non sapeva cosa fosse il ferro, ma neanche il bronzo. L'aratro era di selce ed era trainato da una coppia di docili uri, dal mantello bruno e le corna enormi, e bisognava esercitare molta forza su di esso per farlo affondare nel terreno in maniera efficiente. Kakin aveva ereditato dal padre, appartenente all’etnia dei Galli Senoni, muscoli possenti, che sembravano scolpiti tanto erano in rilievo nello sforzo del lavoro nei campi. Dalla madre aveva invece ereditato i lineamenti delicati del viso, più tipici delle popolazioni che vivevano al di là dell'Appennino, gli Umbri, ma soprattutto gli Etruschi.
Aveva già venticinque anni, ne avrebbe vissuti al massimo altri dieci, forse quindici, ma non aveva ancora trovato una donna adatta a lui. Proprio a causa della sua discendenza mista, sia le donne di origine gallica sia quelle di origine umbra temevano ritorsioni da parte delle loro famiglie, qualora si fossero accoppiate con quel bel giovane che abitava sulla collina. Del resto anche lui ci teneva alla sua indipendenza e non si sarebbe mai mescolato con i nuovi arrivati, i Romani, che avevano attraversato il fiume Sentino ed erano scesi lungo la vallata dell'Esino per iniziare a fondare l'accampamento da cui avrebbero sferrato l'assalto ai Galli Senoni. In quella limpida giornata di inizio autunno, mentre preparava i propri campi a ricevere i semi del grano, guardava l'accampamento dei Romani prendere forma nella collina opposta, al di là della quale, più a valle, scorreva il fiume. Accampamento che, nel giro di pochi giorni, aveva assunto la conformazione tipica. Sotto la guida di due consoli, erano state tracciate le due strade principali, che si incrociavano ad angolo retto tra loro nella parte più alta della collina, il Cardo Massimo e il Decumano Massimo. Girando lo sguardo alla sua destra, l'uomo vedeva le sagome delle montagne appenniniche stagliarsi evidenti contro il cielo azzurro. Riconosceva il monte più alto, dalla forma familiare, per essersi recato diverse volte alle sue pendici, affrontando due giornate di duro cammino, al fine di procurarsi un ottimo alimento che alcuni suoi lontani parenti Umbri ricavavano dal latte delle pecore che allevavano nei verdi pascoli montani. La madre e il padre gli avevano insegnato la strada quando era ancora un bambino di poco più di dieci anni. L'ultima volta che vi era stato, i suoi cugini gli avevano parlato dei Romani, che avevano fondato un importante insediamento al di là di quelle montagne, sulla riva di un fiume che avevano dedicato a un loro Dio, Giano. I Romani avevano armi in bronzo, ma anche in un altro metallo, fino a quel momento quasi sconosciuto nella penisola italica, che li rendeva invincibili anche davanti a un'incredibile superiorità numerica dei nemici. Proprio per l'importante presenza di quel metallo nelle zone limitrofe al fiume dedicato al Dio Giano, che era poi il Dio della guerra, quella vallata in mezzo alle montagne era diventata un'importante fucina di fabbricazione delle armi in ferro da parte dei fabbri romani. Così l'insediamento aveva preso il nome di Faber Janus. Sanniti, Umbri ed Etruschi si erano coalizzati per cercare di arginare l'avanzata dei romani, che avevano ormai conquistato l'intero Lazio e cercavano di estendere la loro supremazia ad altre regioni della penisola.
«Combatteremo a fianco di Gellio Ignazio, il duce sannita», dissero a Kakin i suoi cugini pastori. «Abbiamo forze almeno tre volte superiori a quelle dei Romani. Non permetteremo la loro avanzata oltre il fiume Sentino.»
«Fate attenzione! I Romani hanno armi in grado di sconfiggere anche eserciti molto potenti. Le vostre spade si spezzeranno sotto i colpi delle loro, fatte di un metallo che fa scintille quando colpisce la roccia, e rimarranno solo cadaveri sotto i loro colpi.»
Quando, alla fine dell'estate, Kakin vide i primi Romani giungere dalle sue parti, capì che le sue previsioni erano state giuste, che i suoi cugini pastori erano di certo morti e che lui non avrebbe più goduto del sapore di quel prelibato alimento chiamato Kaseo. I consoli romani, Quinto Fabio Rulliano e Publio Decio Mure, sapevano bene che le truppe sannite scampate alla battaglia del Sentino si erano riunite con i Galli, qualche decina di miglia più a nord di quel luogo, e che la battaglia contro questo esercito sarebbe stata molto più dura che non quella da poco vinta. C'era anche la possibilità che fossero i Galli stessi, particolarmente agguerriti, a sferrare l'offensiva. Decisero pertanto che l'insediamento fondato sulle rive dell'Esino quasi cinquecento anni prima dal Re Esio, un mitico Re di origine Greca, era difficilmente difendibile. Molto meglio, anche se più scomodo, sarebbe stato fondare un nuovo accampamento sulla collina, dalla quale verso sud-est si dominava il fiume, lungo la valle giù fino al mare, mentre verso nord-ovest si poteva gettare lo sguardo verso le terre controllate da Galli e Sanniti. Quinto Fabio Rulliano depose una prima pietra quadrata sul punto più alto della collina: l'allungato crinale della stessa, piuttosto pianeggiante, sarebbe stato percorso dal Cardo Massimo. Il Decumano Massimo lo avrebbe tagliato in senso perpendicolare e, all'incrocio delle due strade principali, sarebbe sorto il Foro. Publio Decio Mure, che era più un tecnico che uno stratega, aveva invece deciso dove sarebbero sorti l'anfiteatro e il teatro e dove sarebbe stata costruita la grande cisterna per l'approvvigionamento idrico. In seguito, se l'insediamento fosse rimasto abitato, al di là della sua funzione strategica, sarebbero state costruite le Terme, i Templi e le case dei Nobili Patrizi.
Per i Romani, la collina su cui Kakin stava lavorando la terra era a mezzo miglio di distanza ed era uno dei loro primi obiettivi. Da parte sua, Kakin era abituato a calcolare le distanze in maniera diversa, in piedi, passi e giornate di cammino, ma capiva bene che quell'accampamento romano così vicino in linea d'aria rappresentava un estremo pericolo, non solo per la sua libertà, ma per la sua stessa vita. Non avrebbe mai tollerato di diventare schiavo dei Romani, e dover coltivare la sua terra per dover cedere le olive, e il grano, e l'uva, e rimanere solo con qualche frutto, a malapena sufficiente per sopravvivere. Meglio morire con onore che perdere la propria libertà.
Mentre questi pensieri affollavano il suo rozzo cervello, Kakin iniziò a udire uno strano rumore, come un sibilo, la cui intensità aumentava sempre di più, provocando un forte fastidio alle orecchie. Alzò lo sguardo verso il cielo e vide un'enorme palla di fuoco, che stava precipitando dal cielo a una velocità incredibile. Che cos'era? Non aveva mai visto nulla di simile in vita sua. L'oggetto, continuando nella sua inesorabile traiettoria, proiettò la sua ombra sulla figura di Kakin, che, da lì a qualche istante, non avrebbe rivisto mai più la luce del sole. L'impatto dell'oggetto infuocato con il terreno fu devastante. Una nuvola di terra, polvere e detriti rocciosi si sollevò per almeno trecento piedi, mentre l'oggetto, del diametro di circa duecento cubiti, sprofondava nel terreno fino a raggiungere la falda acquifera. La terra tremò con violenza e la scossa fu avvertita per miglia e miglia. Il contatto dell'oggetto incandescente con l'acqua della falda freatica fece risalire dalle viscere della terra un forte getto di vapore acqueo, che fuoriuscì dalla voragine appena formatasi. La massa di terra e detriti che si era sollevata verso l'alto ricadde in parte all'interno della voragine stessa, a ricoprire