Senilità. Italo Svevo
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Emilio arrossì. Gli parve di poter leggere negli occhi di ogni passante un giudizio ingiurioso. La guardò ancora. Evidentemente ella aveva nell’occhio per ogni uomo elegante che passava, una specie di saluto; l’occhio non guardava, ma vi brillava un lampo di luce. Nella pupilla qualche cosa si moveva e modificava continuamente l’intensità e la direzione della luce. Quell’occhio crepitava! Emilio si attaccò a questo verbo che gli parve caratterizzasse tanto bene l’attività in quell’occhio. Nei piccoli movimenti rapidi, imprevedibili della luce, pareva di sentire un lieve rumore.
– Perché civetti? – chiese egli costringendosi ad un sorriso. Senz’arrossire e ridendo, ella rispose: – Io? Ho gli occhi per guardare, io. – Ella era dunque consapevole del movimento del suo occhio; s’ingannava soltanto dicendolo «guardare». Poco dopo passò un impiegatuccio, certo Giustini, bel giovinetto che Emilio conosceva di vista. L’occhio di Angiolina si ravvivò ed Emilio si volse a guardare il fortunato mortale ch’era già passato. L’impiegatuccio s’era fermato a guardarli. – S’è fermato a guardarmi, eh? – chiese essa sorridendo lieta.
– Perché te ne compiaci? – chiese egli con tristezza. Ella non lo comprese neppure. Poi, con astuzia, volle fargli credere ch’ella di proposito cercasse di renderlo geloso, e, infine, per quietarlo, spudoratamente, alla luce del sole fece con le labbra rosse una smorfia che voleva rappresentare un bacio. Oh, ella non sapeva fingere. La donna ch’egli amava, Ange, era sua invenzione, se l’era creata lui con uno sforzo voluto; essa non aveva collaborato a questa creazione, non l’aveva neppure lasciato fare perché aveva resistito. Alla luce del giorno il sogno scompariva.
– Troppa luce! – mormorò egli abbacinato. – Andiamo all’ombra.
Essa lo guardò con curiosità vedendogli il viso sconvolto: – Il sole a te fa male? Mi dicono infatti che ci sono delle persone che non lo possono sopportare. – Come ella aveva torto d’amare il sole.
Al momento di separarsi, egli le chiese: – E se Volpini risapesse di questa nostra passeggiata traverso la città?
– Chi gliel’avrebbe a dire? – disse essa con grande calma Gli direi che tu sei un fratello o un cugino della Deluigi. Egli non conosce nessuno a Trieste, ed è quindi facile fargli credere ciò che si vuole.
Quando si separarono, egli volle ancora analizzare le proprie impressioni e camminò solo, senza direzione. Un lampo d’energia rese il suo pensiero rapido e intenso. S’era imposto un problema e subito lo risolse. Avrebbe fatto bene a lasciarla immediatamente e non rivederla più. Non poteva più ingannarsi sulla natura dei propri sentimenti, perché il dolore che poco prima aveva provato era troppo caratteristico con quella vergogna per lei e per se stesso.
S’avvicinò a Stefano Balli col proposito di fargli una promessa per cui la sua risoluzione fosse resa irrevocabile. Invece la vista dell’amico bastò a fargliela abbandonare. Perché non si sarebbe potuto divertire anche lui con le donne come faceva Stefano? Ricordò quale sarebbe stata la sua vita senz’amore. Da una parte la soggezione al Balli, dall’altra la tristezza d’Amalia, e null’altro. E non gli parve d’essere meno energico ora che poco prima; anzi, ora voleva vivere, godere anche a costo di soffrire. Avrebbe dimostrato energia nel modo con cui avrebbe trattato Angiolina, non nel fuggirla vigliaccamente.
Lo scultore lo accolse con una bestemmia brutale: – Sei vivo ancora? Bada che se, come sembrerebbe dalla tua faccia contrita, ti avvicini per chiedermi un favore, sprechi fatica e fiato. Bastardo!
Gli gridava nelle orecchie comicamente minaccioso, ma Emilio fu liberato da ogni dubbio. L’amico, parlandogli d’appoggio, gli aveva dato un buon consiglio; e chi meglio del Balli avrebbe potuto soccorrerlo in quei frangenti? – Te ne prego supplicò, – avrei un consiglio da chiederti.
L’altro si mise a ridere. – Si tratta d’Angiolina, nevvero? Non voglio saperne di cose che la concernono. E capitata fra noi a dividerci e ci stia, ma non mi secchi altrimenti.
Avrebbe potuto essere più brusco ancora che Emilio cionondimeno non avrebbe rinunziato ad averne il consiglio. Da quello doveva risultare la salvezza; Stefano, che tanto bene se ne intendeva, gli avrebbe indicata lui la via da seguirsi per continuare a godere senza più soffrire. In un solo istante giunse così dall’altezza di quel suo primo virile proposito alla più bassa abiezione: la coscienza della propria debolezza e la perfetta rassegnazione alla stessa. Chiamava aiuto! Avrebbe voluto conservare almeno l’aspetto della persona che domanda un semplice consiglio tanto per udire un parere altrui. Per un effetto meccanico, invece, quei gridi nelle orecchie lo resero supplichevole. Avrebbe avuto grande bisogno di venir accarezzato.
Stefano ne ebbe compassione. Lo prese ruvidamente pel braccio e lo trascinò seco verso la Piazza della Legna ove aveva lo studio. – Sentiamo. Se c’è aiuto possibile, sai bene ch’io te lo darò.
Commosso, Emilio si confessò. Sì. Ora lo sentiva chiaramente. La cosa era divenuta per lui molto seria, e descrisse il proprio amore, l’ansietà di vederla, di parlarle, la gelosia, il dubbio, il cruccio incessante e l’oblio perfetto d’ogni cosa che non avesse avuto attinenza a lei o al proprio sentimento. Poi parlò d’Angiolina come ora la giudicava in seguito al contegno ch’ella teneva sulla via, alle fotografie appese al muro della sua stanza e alla sua dedizione al sarto e ai loro patti. Parlandone sorrise più volte. L’aveva evocata alla mente, la vedeva lieta, ingenuamente perversa e le sorrideva senz’ira. Povera fanciulla! Ella ci teneva tanto a quelle fotografie da tenerle in parata sul muro, amava tanto di venir ammirata per la via da volere ch’egli stesso tenesse il registro delle occhiate lanciatele. Parlandone sentì che in tutto ciò non v’era offesa per chi aveva dichiarato di non cercare in lei che un giocattolo. Vero è che nel racconto non erano entrate tutte le sue osservazioni ed esperienze, ma quelle che ne erano rimaste fuori per il momento non esistettero più. Guardò il Balli con timidezza perché temeva di vederlo scoppiare in una risata, e fu soltanto la logica che lo costrinse a proseguire. Aveva dichiarato di volere un consiglio e doveva chiederlo. Il suono delle proprie parole echeggiava ancora nel suo orecchio ed egli ne trasse una conclusione come da parole altrui. Con grande calma, quasi avesse voluto far dimenticare il calore con cui aveva parlato fino a quel punto, chiese: – Non ti pare che visto che non so comportarmi come dovrei, farei bene a cessare da questa relazione? – Dissimulò di nuovo un sorriso. Sarebbe stato comico che il Balli, in buona fede, gli avesse dato il consiglio di lasciare Angiolina.
Ma Stefano diede subito prova della sua intelligenza superiore e non volle consigliare. – Capisci che io non posso mica consigliarti d’essere fatto altrimenti, – disse affettuosamente – Lo sapevo io che questa specie di avventure non era fatta per te. – Emilio pensò che, poiché Balli ne parlava a quel modo, i sentimenti di cui egli poco prima s’era tanto spaventato dovessero essere una cosa comune, e ne trasse un nuovo argomento di tranquillità.
S’avvicinò Michele, il servo del Balli, un uomo in età, antico soldato. In posizione di attenti disse al padrone qualche parola a mezza voce e s’allontanò dopo d’essersi levato il cappello con un gesto largo ma il corpo sempre immobile.
– Sono atteso nello studio, – disse il Balli con un sorriso. – E’ una donna ed è peccato che tu non possa assistere al nostro colloquio. Sarebbe molto istruttivo per te. – Poi ebbe una idea: – Vuoi che ci troviamo una sera in quattro? – Credette d’aver trovata la via per dare aiuto all’amico ed Emilio accettò con entusiasmo. Naturalmente! L’unico mezzo per poter imitare il Balli era di vederlo all’opera.