Gli ultimi flibustieri. Emilio Salgari

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Gli ultimi flibustieri - Emilio Salgari

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style="font-size:15px;">      Un quarto d’ora dopo, Panchita, tutta inzuppata d’acqua, era di ritorno, accompagnata da un bell’uomo sui trent’anni, bruno come un indiano, con due baffoni neri che gli davano un aspetto marziale. Don Barrejo non aveva esagerato quando aveva detto a Panchita che il di lei fratello era grosso e forte come un toro, poiché infatti il nuovo venuto doveva possedere certi muscoli, da rompere a pugni le costole anche ad un bue.

      – Hai condotto il carretto Rios? – Gli chiese don Barrejo.

      – Sì, cognato, – rispose il bell’uomo.

      – Sai che cosa dobbiamo fare?

      – Mia sorella mi ha spiegato ogni cosa.

      – Hai portato con te almeno una spada? L’avventura potrebbe finire maluccio.

      – Tu sai che io maneggio meglio il randello e me ne sono portato uno di quei solidissimi.

      – Allora sbrighiamoci: Panchita, fa’ lume.

      I due uomini scesero nella cantina, alzarono non senza fatica la grossa botte e la trasportarono, dopo un lavoro laborioso, su un carretto che stava fermo dinanzi la porta della taverna, collocandovela diritta per non disturbare il sonno del fiammingo.

      – Chiudi subito e non aprire a nessuno, – disse don Barrejo a Panchita.

      – E tu, quando tornerai? In quale avventura t’imbarchi, Pepito mio? Eravamo cosí tranquilli prima!…

      – Quando si tratta d’un tesoro come quello del Gran Cacico del Darien, non vi è da esitare a mettervi le mani sopra, moglie mia, – rispose il guascone. – E poi ho nelle vene il sangue di centomila avventurieri e cominciavo ad invecchiare troppo presto nella mia taverna.

      “Ti rimanderò Rios, il quale ti terrà compagnia durante la mia assenza.”

      L’abbracciò, poi si mise dietro al carretto, mentre il robusto castigliano tirava piú forte d’un mulo.

      La notte non era migliore della precedente. Il vento soffiava con mille ululati attraverso le vie oscure, strappando le larghe foglie delle splendide palme e devastando i giardini, e la pioggia non cessava un solo istante di cadere.

      Il fratello di Panchita e don Barrejo, l’uno tirando e l’altro spingendo, erano giunti all’estremità della via, quando s’incontrarono in tre individui, i quali si divertivano a prendersi l’acquazzone, chiacchierando tranquillamente.

      – Ohé, dove si va a quest’ora con quel po’ po’ di vino? – gridò uno dei tre, avanzandosi verso il carretto.

      – Al porto, – rispose asciuttamente don Barrejo.

      – Si potrebbe assaggiarlo, prima che se lo bevano tutto i peruviani od i cileni?

      – È merce sigillata, – ripose il guascone, continuando a spingere.

      – Carrai!… – esclamò un altro. – Si fa un buco nel ventre della botte e si succhia. Credi che noi non abbiamo abbastanza piastre per pagarti?

      – Io non sono il padrone.

      – Cerchi d’ingannarci, poiché abbiamo riconosciuto benissimo in te il proprietario della taverna degli spettri.

      – Insomma, che volete? – chiese il guascone, cui il sangue cominciava a muoversi piú rapido.

      – Bere, por dios!… – risposero i tre sconosciuti, mettendosi dinanzi a Rios per impedirgli di proseguire.

      – Che cosa bere?

      – Quello che sta lí dentro, caramba, – rispose una dei tre.

      – Se vuoi, alzo il coperchio e ti lancio fra le gambe la bestia che vi è dentro. Vorrei vederti allora, bravaccio, che corsa prenderesti.

      “Non sai che lí dentro vi è un giaguaro?”

      – Ah!… Baie!… – esclamarono i tre uomini.

      – Accostate dunque i vostri orecchi d’asino alla botte ed ascoltate, – disse don Barrejo.

      Il fiammingo russava, in quel momento, in modo tale da far tremare perfino le doghe dell’enorme recipiente.

      I tre sconosciuti, niente affatto persuasi di quanto aveva detto il padrone della taverna d’El Moro, s’accostarono al carretto ed allungarono le teste verso la botte.

      Udendo quel brontolio rauco, balzarono indietro spaventati.

      – Carrai!… – gridò uno. – Il padrone porta via gli spettri che infestano la sua cantina!… Gambe, amici!…

      – E subito, o lancio il giaguaro, – gridò don Barrejo. – Vale meglio di tutti i satanelli dell’inferno.

      I tre uomini si erano slanciati ad una corsa disperata, scomparendo ben presto fra le tenebre.

      – Anche gli ubbriachi qualche volta servono a qualche cosa, è vero Rios? – disse il guascone.

      – Se non la finivano però li randellavo per bene, – rispose il castigliano, riprendendo la marcia.

      – Sai dove si trova la posada del Rio Verde?

      – Sí, cognato.

      – È là che dobbiamo fermarci per ora.

      Dopo venti minuti giungevano, sempre sotto una pioggia dirotta che li bagnava fino alle ossa, dinanzi alla posada del Rio Verde.

      Come don Barrejo si era immaginato, erano attesi da Mendoza, Buttafuoco e da Wandoe, i quali stavano chiacchierando sotto il piccolo patio.

      Scambiarono appena poche parole, poi il bucaniere e il filibustiere portarono fuori un uomo che pareva non desse piú segno di vita.

      – È quello che deve tenere compagnia al Pfiffero? – chiese il guascone, il quale si era affrettato a levare il coperchio alla botte.

      – Sí, – rispose il basco.

      – Mi sembra morto.

      – Lo abbiamo fatto bere perché non gridi.

      – Un sistema pericoloso che non consiglierei mai per un uomo ferito.

      – Se anche muore, ci rimarrà sempre compare Arnoldo.

      Alzarono il preteso figlio del grande di Spagna, lo calarono, colle dovute precauzioni, dentro la botte, stendendolo accanto al fiammingo.

      – Al porto ed in fretta, – disse Buttafuoco. – Noi scorteremo il carretto e Wandoe ci guiderà.

      – Che bella notte per far viaggiare le botti, – disse don Barrejo, ridendo. – Vorrei essere dentro anch’io col Pfiffero, almeno sarei al coperto.

      Sempre sotto la pioggia torrenziale, il carretto si mise quasi in corsa, perché spingeva anche Mendoza, mentre Wandoe segnava la via e Buttafuoco stava alla retroguardia.

      Le vie erano deserte ed oscure. Nemmeno le ronde si lasciavano

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