I figli dell'aria. Emilio Salgari

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I figli dell'aria - Emilio Salgari

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lanterne con vetri di madreperla trasparente, occupata per la maggior parte da una tavola la quale si piegava sotto il peso di splendide porcellane.

      Due dozzine di cinesi, persone distintissime di certo, a giudicare dalla ricchezza delle loro vesti, stavano seduti all’intorno, sorseggiando del vino bianco caldo in piccole tazze di porcellana azzurra filettate d’oro. Vi erano dei mandarini di secondo e di terzo grado, riconoscibili pei loro cappelli conici adorni d’un bottone di corallo o di zaffiro con penne di pavone; dei letterati panciuti, dei comandanti militari che portavano sul petto l’insegna d’una tigre; dei ricchi che avevano le unghie lunghe parecchi pollici per dimostrare che non avevano bisogno di lavorare.

      Sing-Sing presentò ai suoi amici il russo ed il cosacco, poi se li fece sedere accanto, Fedoro a sinistra, posto d’onore, e Rokoff a destra.

      Quasi subito i battenti d’una porta s’aprirono e una folla di servi entrò silenziosamente, portando immense zuppiere, piatti giganteschi, recipienti di ogni specie e salsiere di tutte le forme, deponendole sulla tavola, dinanzi ai convitati.

      In Europa non si può avere una idea della ricchezza e della grandiosità dei banchetti cinesi, i quali devono certo superare perfino quelli di Lucullo. Quantunque non siano i cinesi forti mangiatori, in questi pranzi offerti nelle grandi occasioni, spendono somme enormi, perché le portate non devono essere mai meno di trenta ed ognuna composta di tre piatti diversi!… Ordinariamente uno è caldo, gli altri due sono freddi, ma questi non servono altro che per accordare ai convitati un po’ di riposo, non venendo quasi mai toccati. Il cinese non ama che i cibi appena levati dal fuoco e vi fa anche molto onore.

      Le pietanze più strane, le più inverosimili e anche le più ributtanti, che un europeo non oserebbe nemmeno guardare senza provare un vero senso di nausea, si succedono.

      Il riso è il primo piatto, che viene presto finito dai commensali, aiutandosi con dei bastoncini d’avorio lunghi venti centimetri, grossi quanto un aculeo d’istrice e che chiamansi Kwai-tsz, ossia «agili ragazzi».

      La seconda portata invece incomincia con una zuppa di pollo, con aggiunta di molto pepe, molto sale e aceto, poi si seguono vermi di terra in salamoia, cavallette fritte nel burro, ranocchi, prosciutti di carne, maccheroni, uova sode salate e stantie, mantenute un anno nella calce, deliziose pei palati cinesi.

      Poi pallottole di trifoglio, gamberi pestati, pinne di pescecane, piccoli pasticci di carne, lingue d’anitra in salsa bianca con aglio, zuccherini fritti in un olio puzzolente, oloturie in stufato, radici di zenzero, gemme di bambù sciroppate, e non mancano nemmeno i topi fritti, uno dei piatti più apprezzati dai cinesi.

      Il vino nero manca totalmente, quantunque la Cina produca molta uva. Si bevono invece sciroppi d’ogni specie, liquori di ananas, d’arancia, e d’altri frutti eccellenti.

      I convitati, che dovevano prima aver subito un lungo digiuno per far più onore alla tavola dell’anfitrione, avevano assalito vigorosamente le prime portate, onde mostrarsi persone bene educate e cercando di rimpinzarsi più che potevano.

      Sing-Sing, d’altronde, era sempre lì per incoraggiarli. Ad ogni portata, rivolgeva a quello ed a questo dei convitati, che cominciavano a rallentare la foga, dicendogli con un amabile sorriso:

      – Mio caro amico, voi non avete ancora mangiato nulla. Per caso trovate che la mia cucina non vi va?

      – No, no – rispondeva l’interpellato, sbuffando. – Sono gonfio come un otre e la vostra cucina è assolutamente deliziosa.

      E subito l’anfitrione di ripicco:

      – So, bene che la mia tavola non saprebbe darvi altro che dei cibi appena possibili, ma non ho di meglio. Fatevi coraggio e gli dei vi benediranno; non sdegnate dunque queste pessime vivande.

      – I vostri cibi sono degni degli dei e quantunque io stia per scoppiare, continuerò tuttavia a far onore al vostro pranzo.

      Tutte frasi convenzionali, che si ripetevano su egual tono ad ogni portata, e che dovevano far sudare freddo ai poveri convitati, parecchi dei quali parevano sul punto di scoppiare davvero.

      Chi faceva poco onore al pasto, senza però offendere Sing-Sing, erano i due europei. Il cosacco specialmente, non abituato a vedere in tavola né topi, né vermi, né cavallette, quantunque il suo stomaco fosse d’una robustezza eccezionale, si era sentito più volte rivoltare gl’intestini e solo per non far dispiacere all’amico che lo teneva d’occhio, era rimasto al suo posto.

      Brontolava incessantemente e faceva certe smorfie e certi occhiacci, da far scoppiare dalle risa Fedoro. Il povero diavolo sudava ben più copiosamente dei convitati cinesi, condannati a rimpinzarsi come oche di Strasburgo, per non mostrarsi maleducati.

      Fortunatamente, fra una portata e l’altra, vi era un intervallo passabilmente lungo, durante il quale tutti potevano liberamente fumare. Dei giovani valletti, messi a disposizione dei convitati, erano pronti a offrire le pipe, già accese prima ancora che venissero richieste.

      Sing-Sing ne dava l’esempio. Quando però fumava, Fedoro che lo osservava di frequente, lo vedeva immergersi come in dolorose meditazioni. Pareva che allora dimenticasse perfino i suoi convitati, non sorrideva più e rimaneva parecchi minuti silenzioso.

      Fingeva di assaporare il delizioso e profumato tabacco che bruciava nella pipa, ma realmente un pensiero tetro lo tormentava perché la sua fronte si annuvolava e nei suoi occhi si vedeva passare un lampo di terrore. Nondimeno, deposta la pipa, riacquistava prontamente il suo buon umore, sorrideva ai convitati e li incoraggiava incessantemente a far onore alla sua «modesta» cucina. Dopo quindici portate, un gran telone che nascondeva l’estremità della sala fu alzato e agli sguardi stupiti del cosacco apparve un palcoscenico, riccamente decorato con baldacchini di seta e di raso, con giganteschi vasi di porcellana pieni di fiori e con panoplie d’armi scintillanti.

      – Fedoro, che cosa avremo ora? – chiese al russo. – Non bastava il banchetto?

      – Avremo una rappresentazione – rispose Fedoro. – Un pranzo senza commedia sarebbe indegno d’un ricco cinese e non si esiterebbe ad accusarlo di spilorceria.

      – È finito il banchetto?

      – Siamo appena alla metà.

      – Per le steppe del Don! – esclamò Rokoff, con spavento. – Hanno il coraggio di mangiare ancora? Non vedete che sono tanto pieni da correre il pericolo di scoppiare? Hanno perfino gli occhi schizzanti dalle orbite!

      – Troveranno modo di fare stare qualche cosa d’altro nel loro stomaco.

      – E su quel teatro, che cosa rappresenteranno?

      – Qualche dramma terribile – rispose Fedoro. – Saranno artisti di vaglia, perché un signore come Sing-Sing non può permettersi di presentare degli attori scadenti.

      – Delle vere celebrità?

      – Sì, Rokoff.

      – Che io non potrò comprendere non avendo che una imperfetta conoscenza della loro lingua.

      – Dalla loro mimica qualche cosa potrai indovinare.

      – Un’altra portata!

      – Non è che la sedicesima – disse Fedoro. – Tutti piatti dolci.

      – Sono mandorle quelle che nuotano in quello sciroppo giallastro?

      – Non te lo dico, altrimenti

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