I misteri della jungla nera. Emilio Salgari

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I misteri della jungla nera - Emilio Salgari

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di un’ombra che si teneva a venti passi da me, semi-nascosta fra un cespuglio.

      – Un’ombra! – esclamò Tremal-Naik. – Un’ombra hai detto?

      – Sì, padrone, un’ombra.

      – Chi era? Dimmelo, Aghur, dimmelo!

      – Mi parve una donna.

      – Una donna!

      – Si, sono sicuro che era una donna.

      – Bella?

      – Faceva troppo oscuro perché potessi vederla distintamente.

      Tremal-Naik si passò una mano sulla fronte.

      – Un’ombra! – ripeté egli, più volte. – Un’ombra laggiù! Se fosse la mia visione?… Tira innanzi, Aghur.

      – Quell’ombra mi guardò per alcuni istanti, poi tese un braccio verso di me, invitandomi ad allontanarmi subito. Sorpreso e spaventato ubbidii, ma non avevo fatto ancora cento passi, che un urlo straziante giunse ai miei orecchi. Quel grido lo riconobbi subito: era quello di Hurti!

      – E l’ombra? – chiese Tremal-Naik, in preda ad una estrema agitazione.

      – Non mi volsi nemmeno indietro per vedere se era rimasta là, oppure scomparsa. Mi slanciai attraverso alla jungla colla carabina in mano e giunsi sotto al gran banian, ai piedi del quale, disteso sul dorso, vidi il povero Hurti. Lo chiamai e non mi rispose. Lo toccai, era ancora caldo ma il suo cuore non batteva più!

      – Sei certo?

      – Sicurissimo, padrone.

      – Dove era stato colpito?

      – Non vidi sul suo corpo ferita alcuna.

      – È impossibile!

      – Te lo giuro.

      – E non vedesti alcuno?

      – Nessuno, né udii alcun rumore. Io ebbi paura mi gettai nel fiume lo attraversai perdendo la carabina e riguadagnai la nostra jungla. Credo di aver fatto sei miglia senza respirare, tanto era il mio spavento. Povero Hurti!

      II. L’isola misteriosa

      Un profondo silenzio seguì la triste narrazione dell’indiano. Tremal-Naik, diventato ad un tratto cupo e nervosissimo, s’era messo a passeggiare dinanzi al fuoco, colla testa china sul petto, la fronte aggrottata e le braccia incrociate. Kammamuri, agghiacciato dal terrore, meditava aggomitolato su se stesso. Persino il cane aveva cessato di fare udire ii suo lamentevole urlo e s’era sdraiato a fianco di Darma.

      Le note acute del misterioso ramsinga strapparono il cacciatore di serpenti dalle sue meditazioni. Alzò il capo come un cavallo di battaglia che ode il segnale della carica, gettò un’occhiata profonda nella deserta jungla sulla quale ondeggiava allora una densa nebbia, carica d’esalazioni velenose, girò su se stesso ed avvicinandosi bruscamente ad Aghur, gli disse:

      – Hai udito mai il ramsinga?

      – Sì, padrone, rispose l’indiano, – ma una sola volta.

      – Quando?

      – La notte che scomparve Tamul, vale a dire sei mesi fa.

      – Sicché credi anche tu, come Kammamuri, che segnali una disgrazia?

      – Si, padrone.

      – Sai chi è che lo suona?

      – Non lo seppi mai.

      – Credi tu che il suonatore abbia relazione coi misteriosi abitanti di Raimangal?

      – Lo credo.

      – Chi sospetti che siano quegli uomini?

      – Sono poi uomini?

      – Non credo che siano le anime dei morti.

      – Allora saranno pirati, – disse Aghur.

      – E quale interesse possono avere, per assassinare i miei uomini?

      – Chissà, forse quello di spaventarci e di tenerci lontani.

      – Dove supponi che abbiano le loro capanne?

      – L’ignoro, ma oserei dire che ogni notte si radunano sotto la fosca ombra del banian sacro.

      – Sta bene, – disse Tremal-Naik. – Kammamuri, prendi i remi.

      – Cosa vuoi fare, padrone? – chiese il maharatto.

      – Recarmi al banian.

      – Oh! Non farlo, padrone! – gridarono a un tempo i due indiani.

      – Perché?

      – Ti ammazzeranno come hanno ammazzato il povero Hurti.

      Tremal-Naik li guardò con due occhi che mandavano fiamme.

      – Il cacciatore di serpenti non tremò mai in sua vita, né tremerà questa sera. Al canotto, Kammamuri! – esclamò egli, con un tono di voce da non ammettere replica.

      – Ma, padrone!…

      – Hai paura forse? – chiese sdegnosamente Tremal-Naik.

      – Sono maharatto! – disse l’indiano con fierezza.

      – Va’ allora. Questa notte io saprò chi sono quegli esseri misteriosi che mi hanno dichiarato la guerra: e chi è colei che mi ha stregato.

      Kammamuri prese un paio di remi e si diresse verso la riva. Tremal-Naik entrò nella capanna, staccò da un chiodo una lunga carabina dalla canna rabescata, si munì di una gran fiasca di polvere e si passò nella cintola un largo coltellaccio.

      – Aghur, tu rimarrai qui, – diss’egli, uscendo. Se fra due giorni non saremo ritornati, verrai a raggiungerci a Raimangal colla tigre o con Punthy.

      – Ah! padrone…

      – Non ti senti il coraggio bastante per venire laggiù?

      – Del coraggio ne ho, padrone. Volevo dire che fai male a recarti in quell’isola maledetta.

      – Tremal-Naik non si lascia assassinare, Aghur.

      – Prendi con te Darma. Potrebbe esserti utile.

      – Tradirebbe la mia presenza ed io voglio sbarcare senza esser veduto, né udito. Addio, Aghur.

      Si gettò la carabina ad armacollo e raggiunse Kammamuri, che lo attendeva presso ad un piccolo gonga, rozzo e pesante battello, scavato nel tronco di un albero.

      – Partiamo, disse.

      Saltarono nel battello e presero il largo, remando lentamente ed in silenzio.

      Un’oscurità profonda,

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