I misteri della jungla nera. Emilio Salgari
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In lontananza però, sulla fosca linea dell’orizzonte, spiccavano qua e là alcuni alberi, dei manghi carichi di frutta squisite, dei palmizi tara, dei latania e dei cocchi dall’aspetto maestoso, con lunghe foglie disposte a cupola.
Un silenzio funebre, misterioso, regnava ovunque, rotto appena appena dal mormorìo delle acque giallastre che radevano i rami arcuati dei paletuvieri e le foglie del loto e dal fruscio dei bambù scossi da un soffio di aria calda, soffocante, avvelenata.
Tremal-Naik, sdraiato a poppa, col fucile sottomano, taceva e teneva aperti gli occhi fissandoli ora sull’una e ora sull’altra riva, dove udivansi sempre rauchi brontolii e sibili lamentevoli. Kammamuri, invece, seduto nel mezzo, faceva volare il piccolo gonga il quale lasciavasi dietro una scia di una fosforescenza ammirabile, da far quasi credere che quelle acque corrotte fossero sature di fosforo.
Ogni qual tratto, però, cessava di remare, ratteneva il respiro e stava alcuni istanti in ascolto, chiedendo di poi al cacciatore di serpenti se nulla avesse udito o veduto.
Era di già mezz’ora che navigavano, quando il silenzio fu rotto dal ramsinga, che si fece udire sulla riva destra, ma così vicino, da sospettare che il suonatore si trovasse a un centinaio di passi di distanza.
– Alto! – mormorò Tremal-Naik.
Non aveva ancora terminata la parola, che un secondo ramsinga rispose al primo, ma ad una distanza maggiore, intuonando una melodia malinconica, quanto era brillante e viva l’altra. La musica indiana si basa su quattro sistemi che hanno un’intima relazione colle quattro stagioni dell’anno ed a ciascuno di essi viene applicato un tono e modo particolare.
È malinconica nella stagione fredda, viva ed allegra nel ringiovanire della stagione, languida nei grandi calori d›estate e brillante nell›autunno.
Perché mai quei due istrumenti suonavano così contrariamente? Era forse un segnale? Kammamuri lo temeva.
– Padrone – diss’egli, – siamo stati scoperti.
– È probabile, – rispose Tremal-Naik, che ascoltava attentamente.
– Se ritornassimo? Questa notte non fa per noi.
– Tremal-Naik non ritorna mai. Arranca e lascia che i ramsinga suonino a loro piacimento.
Il maharatto riprese i remi spingendo innanzi il gonga, il quale non tardò a giungere in un luogo dove il fiume stringevasi a mo’ di collo di bottiglia. Un buffo d’aria tiepida, soffocante, carica d’esalazioni pestifere, giunse al naso dei due indiani.
Dinanzi a loro, ad un tre o quattrocento passi, apparvero molte fiammelle che vagolavano bizzarramente sulla nera superficie del fiume. Alcune, come fossero attirate da una forza misteriosa, vennero a danzare dinanzi alla prua del gonga, allontanandosi dipoi con fantastica rapidità.
– Eccoci al cimitero galleggiante, – disse Tremal-Naik. – Fra dieci minuti arriveremo al banian.
– Passeremo col gonga? – chiese Kammamuri.
– Con un po’ di pazienza si passerà.
– È male, padrone, offendere i morti.
– Brahma e Visnù ci perdoneranno. Arranca, Kammamuri.
Il gonga, con pochi colpi di remo raggiunse la stretta del fiume e sboccò in una specie di bacino, sul quale si intrecciavano i lunghi rami di colossali tamarindi, formando una fitta volta di verzura.
Colà galleggiavano parecchi cadaveri che i canali del Gange avevano trascinato fino al Mangal.
– Avanti! – disse il cacciatore di serpenti.
Kammamuri stava per ripigliare i remi, quando la volta di verzura, che copriva quel cimitero galleggiante, s’aprì per dar passaggio a uno stormo di strani esseri dalle ali nere, i trampoli lunghissimi, i becchi aguzzi e smisurati.
– Cosa c’è di nuovo? – esclamò Kammamuri sorpreso.
– I marabù, – disse Tremal-Naik.
Infatti un centinaio di quei funebri uccelli del sacro fiume, calavano, starnazzando giocondamente le ali, posandosi sui cadaveri.
– Avanti, Kammamuri, – ripeté Tremal-Naik.
Il gonga spinto innanzi, e dopo una buona mezz’ora, attraversato il cimitero, trovossi in un bacino assai più ampio, completamente sgombro, che veniva diviso in due bracci da una aguzza punta di terra, sulla quale spiccava un grandissimo e singolare albero.
– Il banian! – disse Tremal-Naik.
Kammamuri a quel nome fremette.
– Padrone! – mormorò, coi denti stretti.
– Non temere, maharatto. Deponi i remi e lascia che il gonga s’areni da sé sull’isola. Forse c’è qualcuno nei dintorni.
Il maharatto ubbidì sdraiandosi sul fondo del canotto, mentre Tremal-Naik, armata per ogni precauzione la carabina, faceva altrettanto.
Il gonga, trasportato dalla corrente che facevasi lievemente sentire, si diresse, girando su se stesso, verso la punta settentrionale dell’isola Raimangal, sede degli esseri misteriosi che avevano assassinato il povero Hurti.
Un silenzio profondo regnava in quel luogo. Non si udiva nemmeno lo stormire dei giganteschi bambù, essendo cessato il venticello notturno, né le note dei ramsingo. Il fiume stesso pareva che fosse diventato d’olio.
Tremal-Naik di quando in quando, però, alzava con precauzione la testa e scrutava attentamente le rive, per nulla rassicurato da quel silenzio. Il gonga si arenò, con un lieve strofinìo, a un centinaio di passi appena dal banian, ma i due indiani non si mossero.
Passarono dieci minuti d’angosciosa aspettativa, poi Tremal-Naik ardì alzarsi. Prima cosa che gli diede nell’occhio, fu una forma nera, confusa, distesa fra le erbe, ad una ventina di metri dalla riva.
– Kammamuri, – mormorò. – Alzati ed arma le tue pistole.
Il maharatto non se lo fece dire due volte.
– Cosa vedi, padrone? – chiese egli con un filo di voce.
– Guarda laggiù.
– Eh!… – fe’ il maharatto, sbarrando gli occhi. – Un uomo!
– Zitto!
Tremal-Naik alzò la carabina prendendo di mira quella massa nera che aveva l’apparenza d’un essere umano sdraiato, ma l’abbassò senza scaricarla.
– Andiamo a vedere cos’è, Kammamuri, – diss’egli.– Quell’uomo non è vivo.
– E se fingesse d’essere morto?
– Peggio per lui.
I due indiani sbarcarono, dirigendosi quatti quatti