I misteri della jungla nera. Emilio Salgari

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I misteri della jungla nera - Emilio Salgari

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di serpenti della jungla nera.

      – Bisogna che muoia.

      – Morrà, Gary. Per quanto corra, noi lo raggiungeremo ed i nostri lacci lo strangoleranno. Ora tu parti e cammina dritto fino a che giungi sulla riva del fiume: io mi reco alla pagoda a vegliare sulla Vergine. Addio, e che la nostra dea ti protegga.

      I due indiani si separarono prendendo due vie differenti. Appena il rumore cessò, Tremal-Naik che tutto aveva udito, balzò in piedi

      – Kammamuri, – diss’egli con viva emozione, bisogna che ci separiamo. Tu li hai uditi: essi sanno che io sono sbarcato e mi cercano.

      – Ho udito tutto, padrone.

      – Tu seguirai l’indiano che si dirige verso il fiume e appena lo potrai guadagnerai la riva opposta. Io seguo l’altro.

      – Tu mi nascondi qualche cosa, padrone. Perché non vieni anche tu alla riva?

      – Devo recarmi alla pagoda.

      – Oh! Non farlo, padrone!

      – Sono irremovibile. Nella pagoda si nasconde la donna che mi ha stregato.

      – E se ti assassinano?

      – Mi uccideranno a fianco di lei e morrò felice. Parti, Kammamuri, parti ché comincia a prendermi la febbre.

      Kammamuri emise un profondo respiro che pareva un gemito, e si alzò.

      – Padrone, – disse con voce commossa. – Dove ci rivedremo?

      – Alla capanna, se sfuggo alla morte: vattene.

      Il maharatto si cacciò nella jungla dietro le traccie dell’indiano, in direzione della riva. Tremal-Naik stette lì a guardarlo. colle braccia incrociate sul petto e la fronte abbuiata.

      – Ed ora, – diss’egli rialzando con fierezza il capo, quando il maharatto scomparve ai suoi occhi, – sfidiamo la morte!…

      Si gettò la carabina ad armacollo, diede un ultimo sguardo all’intorno e si allontanò a passi rapidi e silenziosi, seguendo le traccie del secondo indiano il quale non doveva essere molto discosto.

      La via era difficile ed intricatissima. Il terreno era coperto, fin dove poteva giungere l’occhio, da una rete fitta fitta di bambù che si rizzavano ad un’altezza veramente straordinaria.

      V’erano colà i cosiddetti bans tulda, coperti di foglie grandissime, i quali, in meno di trenta giorni, acquistano un’altezza che sorpassa i venti metri ed una grossezza di trenta centimetri.

      I behar bans, alti appena un metro, col fusto vuoto ma forte ed armato di lunghe spine, ed una varietà numerosa di altri bambù conosciuti comunemente nelle Sunderbunds col nome generico di bans, i quali si stringevano così davvicino, che era d’uopo servirsi del coltello per aprirsi un passaggio.

      Un uomo non pratico di quei luoghi si sarebbe senza dubbio smarrito in mezzo a quei giganteschi vegetali e si sarebbe trovato nell’impossibilità di fare un passo innanzi senza far rumore, ma Tremal-Naik, che era nato e cresciuto nella jungla, movevasi là sotto con sorprendente rapidità e sicurezza, senza produrre il menomo fruscìo. Non camminava, poiché ciò sarebbe stato assolutamente impossibile, ma strisciava simile ad un rettile, guizzando fra pianta e pianta, senza mai arrestarsi, senza mai esitare sulla via da scegliere. Ogni qual tratto egli appoggiava l’orecchio a terra ed era sicuro di non perdere le traccie dell’indiano che lo precedeva, trasmettendo il terreno, il passo di lui, per quanto fosse leggiero.

      Aveva già percorso più d’un miglio, quando s’accorse che l’indiano erasi improvvisamente arrestato. Appoggiò tre o quattro volte l’orecchio, ma il terreno non trasmetteva alcun rumore, si alzò ascoltando con profonda attenzione, ma nessun fruscìo gli pervenne. Tremal-Naik cominciò a diventare inquieto.

      – Cosa è succeduto? – mormorò egli, guardandosi d’attorno. – Che si sia accorto che io lo seguo? Stiamo in guardia!

      Percorse ancora tre o quattro metri strisciando, poi alzò il capo, ma lo riabbassò quasi subito. Aveva urtato contro un corpo tenero che pendeva dall’alto e che erasi subito ritirato.

      – Oh! – fe’ egli.

      Un pensiero terribile gli attraversò il cervello. Si gettò prontamente da un lato sguainando il coltello e guardo in aria.

      Nulla vide o almeno nulla gli parve di vedere. Eppure era sicuro di aver urtato contro qualche cosa, che non doveva essere una foglia di bambù.

      Stette alcuni minuti immobile come una statua.

      – Un pitone! – esclamo ad un tratto, senza però sgomentarsi.

      Un fruscìo repentino erasi udito in mezzo ai bambù, poi un corpo oscuro, lungo, flessuoso, discese ondeggiando per una di quelle piante. Era un mostruoso serpente pitone, lungo più di venticinque piedi, il quale allungavasi verso il cacciatore di serpenti sperando di allacciarlo fra le sue viscose spire e stritolarlo con una di quelle terribili strette alle quali nulla resiste. Aveva la bocca aperta colla mascella inferiore divisa in due branche come i ferri d’una tenaglia, la forcuta lingua tesa e gli occhi accesi, che brillavano sinistramente fra la profonda oscurità.

      Tremal-Naik s’era lasciato cadere per terra per non venire afferrato dal mostruoso rettile e ridotto in un ammasso d’ossa infrante e di carni sanguinolenti.

      – Se mi muovo sono perduto, – mormorò egli con straordinario sangue freddo. – Se l’indiano che mi precede non s’accorge di nulla, sono salvo.

      Il rettile era disceso tanto, che colla testa toccava la terra. Egli si allungò verso il cacciatore di serpenti che conservava la rigidezza d’un cadavere, ondeggiò per qualche tratto su di lui lambendolo colla fredda lingua, poi cercò di farglisi sotto per avvolgerlo. Tre volte tornò alla carica sibilando di rabbia e tre volte si ritirò contorcendosi in mille guise, salendo e ridiscendendo il bambù attorno il quale erasi avvinghiato. Tremal-Naik fremente, inorridito, continuava a rimanere immobile facendo sforzi sovrumani per padroneggiarsi, ma appena vide il rettile alzarsi arrotolandosi in parte su se stesso, affrettossi a strisciare cinque o sei metri lontano. Credendosi ormai fuori di pericolo, s’era voltato per rialzarsi, quando udì una voce minacciosa a gridare:

      – Cosa fai qui?

      Tremal-Naik s’era prontamente alzato col coltello in pugno. A sette od otto metri di distanza, assai vicino al posto occupato dal rettile, era improvvisamente sorto un indiano di alta statura, estremamente magro, armato d’un pugnale e di una specie di laccio che finiva in una palla di piombo.

      Sul petto portava tatuato il misterioso serpente colla testa di donna, contornato da alcune lettere del sanscrito.

      – Cosa fai qui? – ripeté quell’indiano con tono minaccioso.

      – E tu cosa fai? – ribatté Tremal-Naik, con calma glaciale. – Sei forse uno di quei miserabili che si divertono ad assassinare le persone che qui sbarcano?

      – Sì, e sappi che ora farò altrettanto con te.

      Tremal-Naik si mise a ridere, guardando il rettile il quale cominciava a svolgere gli anelli, ondeggiando quasi sulla testa dell’indiano.

      – Tu credi di uccidermi, – disse il cacciatore, e la morte invece

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