I misteri della jungla nera. Emilio Salgari

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I misteri della jungla nera - Emilio Salgari

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vergine che veglia… Giusto Visnù, sarebbe mai…

      S’arrestò e portò ambo le mani al cuore che batteva con veemenza straordinaria. Egli provava allora un’emozione analoga a quella che sentiva in quelle sere che trovavasi dinanzi alla strana visione.

      Fu un lampo. S’aggrappò a quella corda e si mise a scendere nelle tenebre, quantunque ignorasse ancora dove andasse a finire e ciò che lo attendeva laggiù. Pochi minuti dopo i suoi piedi battevano su di un oggetto arrotondato, il quale mandò un suono metallico che gli echi del tempio ripeterono più volte.

      Stava per curvarsi per vedere cos’era, quando un cigolìo simile a quello di una porta che gira sui cardini, giunse ai suoi orecchi.

      Guardò sotto di sé e gli parve di scorgere, fra le tenebre, un’ombra che muovevasi, ma senza produrre rumore di sorta.– Chi può esser mai? – si chiese egli, rabbrividendo.

      Con una mano estrasse una pistola e l’impugnò deciso di vendere caramente la vita, se veniva scoperto, e attese coll’immobilità d’una statua di granito.

      Un sospiro profondo salì fino a lui; quel sospiro lo impressionò in un modo nuovo, misterioso. Gli sembrò che gli avessero vibrato una pugnalata in cuore.

      – Sono pazzo o stregato, – mormorò egli.

      L’ombra si era fermata dinanzi ad una massa nera, enorme che trovavasi proprio al disotto della fune.

      – Eccomi, orribile divinità! – esclamò una voce di donna che scosse Tremal-Naik fino al fondo dell’anima.

      Tremal-Naik al colmo della sorpresa udì una materia liquida precipitare sul suolo e sentì spandersi per l’aria un profumo soave.

      – Mostruosa gente! – pensò egli. – Eppure quell’ombra ha una voce dolce come le note del saranguy… È strana! tremo come se avessi la febbre. Perché?…

      – Ti odio! – esclamò la medesima voce, con profonda amarezza. – Ti odio, spaventevole divinità, che mi condannasti ad eterno martirio dopo d’avermi distrutto tutto ciò che avevo di più caro sulla terra. Assassini, possiate essere maledetti in questa e nell’altra vita!

      Uno scoppio di pianto seguì la maledizione che quell’essere misterioso aveva scagliato su quegli uomini che aveva chiamato assassini. Tremal-Naik per la seconda volta fremette in tutte le membra e lui, l’uomo dall’animo inaccessibile, lui, il selvaggio figlio della jungla, lui, il cacciatore di serpenti, per la prima volta in sua vita, si sentì commosso.

      Ebbe per un istante l’idea di lasciarsi cadere nel vuoto. ma un po’ di diffidenza lo trattenne. Del resto era troppo tardi, poiché l’ombra s’era allontanata scomparendo nelle tenebre e poco dopo udì il cigolìo della porta che schiudevasi.

      – Ma che non possa svelare adunque questo mistero? – mormorò Tremal-Naik, quasi con rabbia. – Ma chi sono adunque questi mostri che han bisogno di vittime?

      – Chi è mai questa spaventevole divinità? Chi è questa donna che viene a maledire a mezzanotte, nell’ora dei delitti, dei fantasmi, delle vendette?… Chi è questo essere, che mentre gli altri strangolano, piange? Che mentre gli altri mi fan ribrezzo, mi commuove! Che mentre gli altri han cupa la voce, l’ha dolce, soave come un’armonia celeste?… Quest’essere, questa donna io la voglio vedere, io le voglio parlare e tutto mi svelerà. Non so, ma una voce interna mi dice che questa donna io l’ho veduta altre volte, ha fatto palpitare il mio cuore, che questa donna è…

      S’arrestò anelante, quasi spaventato. Una fiamma gli salì in volto e lo inondò di sudore.

      – Se fosse la mia visione! – esclamò egli con voce tremante per l’emozione. – Quando m’arrampicava sul tempio io era commosso; quando scesi quaggiù io tremava. Se fosse vero?… Scendiamo.

      Si lasciò calare giù e posò i piedi su di un oggetto duro e scabroso, che diede quel suono particolare dei corpi metallici e specialmente dei bronzi.

      S’accorse di essere sopra alla massa nera, dinanzi alla quale la donna aveva versato quel profumo, maledetto e pianto.

      – Cos’è mai questo? – mormorò egli.

      Si chinò, appoggiò le mani su quella massa di bronzo e si lasciò scivolar giù, finché toccò terra. I suoi piedi sdrucciolarono su di una superficie liscia e umidiccia.

      – È qui che ella sparse il profumo, – diss’egli.– L’odore che mi sale alle nari me lo dice. Domani saprò dove mi trovo e con chi avrò da fare.

      Fece sei o sette passi brancolando fra le tenebre e si aggomitolò su se stesso, colle pistole in mano, aspettando che un raggio di luce illuminasse quel misterioso tempio.

      Passarono alcune ore senza che rumore alcuno turbasse il funebre silenzio che regnava in quel luogo; lassù, verso l’apertura, il cielo cominciava a rischiararsi e gli astri ad impallidire sotto i primi albori. Tremal-Naik, immobile, cogli occhi bene aperti e gli orecchi tesi, aspettava sempre con quella pazienza che è particolare alle razze asiatiche.

      Verso le quattro il sole apparve improvvisamente sull’orizzonte, illuminando la grande palla di bronzo che ergevasi sulla cima della pagoda e dall’ampia apertura scese un fascio di luce. Tremal-Naik scattò in piedi, sorpreso, sbalordito dallo spettacolo che offrivasi dinanzi a’ suoi occhi.

      Egli si trovava in una specie di immensa cupola, le cui pareti erano bizzarramente dipinte. Le prime dieci incarnazioni di Visnù, il dio conservativo degli indiani che ha la sua residenza nel Vaicondu o mare di latte del serpente Adissescien, erano dipinte all’ingiro, circondate dai principali deverkeli o semi-dei venerati dagl’indiani, protettori degli otto angoli del mondo, abitatori del sorgon, cioè paradiso di quelli che non hanno tanti meriti per andare nel cailasson o paradiso di Siva. A metà della cupola v’erano scolpiti i cateri, giganteschi geni malvagi, che divisi in cinque tribù vanno errando pel mondo dal quale non possono uscire, né meritare la beatitudine promessa agli uomini, se non dopo d’aver raccolto gran numero di preghiere.

      Nel mezzo della pagoda si elevava una grande statua di bronzo, rappresentante una donna con quattro braccia, di cui una brandiva una lunga daga e un’altra una testa.

      Una grande collana di teschi le scendeva fino al collo dei piedi ed una cintura di mani e di braccia mozzate le stringeva i fianchi.

      La faccia di quell’orribile donna era tatuata, le sue orecchie erano adorne di anelli; la lingua dipinta di rosso cupo, del color del sangue, le usciva d’un buon palmo dalle labbra atteggiate ad un feroce sorriso; i polsi erano stretti da larghi braccialetti ed i piedi posavano su di un gigante coperto di ferite.

      Quella divinità, lo si capiva a prima vista, trasportata dalla ebbrezza del sangue, danzava sul corpo della vittima.

      Un altro oggetto strano, era una vaschetta di marmo bianco, incastonata nelle lucenti pietre del pavimento. Era colma di limpidissima acqua e dentro vedevasi nuotare un pesce di un bel giallo d’oro, piccolo e che somigliava assai ad un mango del Gange. Tremal-Naik non aveva mai visto nulla di simile.

      Egli si era fermato dinanzi alla mostruosa divinità e la contemplava con un misto di stupore e di paura.

      Chi era mai quella sinistra figura contornata di cranii ed ornata di mani e braccia mozze? Cosa significava quel pesciolino dorato nuotante in quella bianca vaschetta? Quale relazione avevano quei due strani simboli, coi feroci uomini che inseguivano e strangolavano i loro simili?

      – Che

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