Il re del mare. Emilio Salgari
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Читать онлайн книгу Il re del mare - Emilio Salgari страница 15
– O almeno poco guardata.
– Quanto ti ha dato il pellegrino perchè tu mandassi la mia nave sui banchi e me la incendiassi?
– Cinquanta fiorini e due carabine.
– Io te ne darò duecento se tu mi guidi al kampong.
– Accetto, signore, – rispose il malese, – e avrei accettato anche senza alcun compenso, dovendovi la vita.
– Siamo ancora lontani dall’imbarcadero?
– Fra un paio d’ore vi giungeremo, è vero? – disse Tangusa guardando il malese.
– Fors’anche prima.
Yanez sciolse le corde che stringevano le mani del prigioniero e uscì, dicendo:
– Saliamo in coperta.
Sul fiume regnava ancora una gran calma e le acque si svolgevano tranquille, fra due rive coperte di superbe felci arborescenti, di belle piante di cycas, di pandanus, di casuarine e di palme, che spiegavano a ventaglio le loro gigantesche foglie piumate.
Fra i rotangs che cadevano in festoni lungo i tronchi degli alberi, vi erano delle siamang, quelle orride scimmie nere che hanno la fronte bassissima, gli occhi infossati, la bocca enorme, il naso piatto e sotto la gola un lungo gozzo che pende come una vescica gonfia, le quali saltellavano di ramo in ramo, senza dimostrare alcuna preoccupazione. In acqua invece nuotavano fra le erbe, numerose bewah, quelle gigantesche lucertole semi-acquatiche che raggiungono sovente i due metri di lunghezza. Dei dayaki nessun indizio. Se fossero stati vicini, i quadrumani non avrebbero mostrato tanta tranquillità, essendo in generale estremamente diffidenti.
La Marianna, che s’avanzava assai lentamente aiutata anche dai remi, non potendo il vento soffiare troppo liberamente fra quelle due immense muraglie di verzura, continuò a salire indisturbata fino al mezzodì, poi si arrestò dinanzi ad una specie di piattaforma che s’avanzava nell’acqua sorretta da alcune file di pali.
– L’imbarcadero del kampong di Pangutaran, – avevano esclamato simultaneamente il pilota e Tangusa.
– Giù le àncore e accosta, – aveva comandato subito il portoghese. – Alle spingarde gli artiglieri.
Due ancorotti furono affondati e il veliero, spinto dalla corrente, andò ad appoggiarsi all’imbarcadero ai cui pali fu legato.
Yanez era salito sulla murata, per accertarsi meglio che nessun dayako si trovava imboscato su quella riva.
Che qui crudeli selvaggi vi fossero passati non vi era dubbio, potendosi scorgere a breve distanza dall’imbarcadero gli avanzi di parecchie capanne distrutte dal fuoco e una vasta tettoia semi-scoperchiata, coi pilastri anneriti dal fumo e dalle fiamme.
– Pare che non vi sia nessuno qui, – disse Yanez, volgendosi verso il meticcio che si era pure rizzato sulla murata.
– Non si aspettavano che noi giungessimo fino qui, – rispose Tangusa. – Erano troppo sicuri di poterci fermare e massacrare alla foce del fiume.
– Quanto distiamo dal kampong!
– Un paio d’ore, signor Yanez.
– Facendo tuonare i cannoni da caccia, Tremal-Naik potrebbe udirci?
– È probabile. Contate di partire subito?
– Sarebbe imprudenza. Aspettiamo la notte; passeremo più facilmente e forse senza essere veduti.
– Quanti uomini prenderemo?
– Non più di venti. Mi preme che la Marianna non rimanga troppo sprovvista. Se la perdessimo sarebbe finita, per tutti, anche per Tremal-Naik e per Darma.
Frattanto noi faremo una breve esplorazione nei dintorni, per accertarci che non ci si tenda qualche agguato. Questa tranquillità non mi rassicura affatto.
Fece mettere in batteria le spingarde e i pezzi, volgendoli verso l’imbarcadero, rizzando delle barricate formate con barili pieni di ferraccio, onde meglio riparare gli artiglieri, quindi comandò di ammainare le vele sul ponte, senza levarle dai pennoni onde la nave fosse pronta a salpare in pochi minuti.
Terminati quei preparativi, Yanez, il meticcio ed il pilota, scortati da quattro malesi dell’equipaggio, armati fino ai denti, scesero sull’imbarcadero per fare una ricognizione nei dintorni, prima di avventurarsi col grosso sotto le folte foreste che si estendevano fra la riva del fiume ed il kampong di Pangutaran.
6. La carica degli elefanti
Una piccola radura, malamente dissodata, scorgendosi ancora i tronchi degli alberi spuntare dal suolo, si estendeva dinanzi all’imbarcadero e dietro agli avanzi di capanne e di tettoie risparmiate dall’incendio.
Al di là cominciava la grande e fitta foresta, composta per la maggior parte d’immense felci arboree, di cycas, di durion e di casuarine, e ingombra di rotangs di lunghezza smisurata che formavano delle vere reti.
Nessun rumore turbava il silenzio che regnava sotto quei maestosi alberi. Solo, di quando in quando, fra il fogliame udivasi un debole grido lanciato da qualche gek-kò, la lucertola cantatrice, o il pispiglio di qualche chalcostetha, quei piccolissimi uccelli dai colori brillanti a riflessi metallici che, in quelle isole malesi, tengono il posto dei tronchilichi americani.
Yanez ed i suoi uomini, dopo essere rimasti qualche tempo in ascolto, un po’ rassicurati da quella calma e dal contegno pacifico d’una coppia di scimmie buto sopra un banano, dopo aver fatto un giro intorno alle capanne, si inoltrarono verso la foresta, esplorandone i margini per una larghezza d’un mezzo miglio, senza trovare alcuna traccia dei loro implacabili nemici.
– Pare impossibile che siano scomparsi, – disse Yanez, a cui riusciva inesplicabile quell’improvvisa tregua dopo tanto accanimento. – Che abbiano rinunciato a tormentarci, dopo le batoste che hanno preso?
– Uhm! – fece il pilota. – Se il pellegrino aveva giurato la vostra perdita, ritengo che farà il possibile per avere le vostre teste.
– Mettici anche la tua nel numero, – disse il portoghese. – Torniamo a bordo e aspettiamo la notte.
Il ritorno lo compirono senza essere stati molestati, confermandosi vieppiù nella supposizione che i dayaki non fossero ancora giunti in quei dintorni.
Appena calato il sole, Yanez fece subito i preparativi della partenza. Vi erano ancora a bordo trentasei uomini, compresi i feriti.
Ne scelse quindici, non volendo indebolire troppo l’equipaggio il quale poteva, durante la sua assenza, venire assalito, e verso le nove, dopo aver raccomandato a Sambigliong la più attiva sorveglianza onde non si facesse sorprendere, ridiscendeva a terra con Tangusa, il pilota e la scorta.
Erano tutti formidabilmente armati, con carabine indiane di lungo tiro e parangs, quelle terribili sciabole che con un solo colpo decapitano un uomo, e ampiamente provvisti di munizioni, ignorando se Tremal-Naik ne avesse tante da poter reggere anche ad un assedio.
– Avanti e soprattutto fate meno rumore che sia possibile, – disse Yanez, nel momento in cui si cacciavano sotto i boschi. – Noi non siamo ancora sicuri di trovare la via sgombra.