Le tigri di Monpracem. Emilio Salgari

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Le tigri di Monpracem - Emilio Salgari

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in tutta la Malesia, avevano modificati tutti i loro velieri, onde affrontare vantaggiosamente le navi che inseguivano.

      Avevano conservato le immense vele, la cui lunghezza toccava i quaranta metri e così pure gli alberi grossi, ma dotati di una certa elasticità e le manovre di fibre di gamuti e di rotang, più resistenti delle funi e più facili a trovarsi, ma avevano dato agli scafi maggiori dimensioni, alla carena forme più svelte e alla prua una solidità a tutta prova.

      Avevano inoltre fatto costruire su tutti i legni un ponte, aprire sui fianchi dei fori pei remi ed avevano eliminato uno dei due timoni che portavano i prahos e soppresso il bilanciere, attrezzi che potevano rendere meno facili gli abbordaggi.

      Malgrado i due prahos si trovassero ancora ad una grande distanza dalle Romades, verso le quali si supponeva veleggiasse la giunca scorta da Kili-Dalù, appena sparsasi la notizia della presenza di quel legno, i pirati si misero subito all’opera, onde essere pronti al combattimento.

      I due cannoni e le due grosse spingarde vennero caricati colla massima cura, si disposero sul ponte palle in gran numero e granate da lanciarsi a mano, poi fucili, scuri, sciabole d’abbordaggio e sulle murate vennero collocati i grappini d’arrembaggio, da gettarsi sulle manovre della nave nemica. Ciò fatto, quei demoni, i cui sguardi già s’accendevano d’ardente bramosia, si misero in osservazione chi sui bastingaggi, chi sulle griselle, e chi a cavalcioni dei pennoni, ansiosi tutti di scoprire la giunca che prometteva un ricco saccheggio, provenendo ordinariamente, tali navi, dai porti della Cina.

      Anche Sandokan pareva che prendesse parte all’ansietà e irrequietezza dei suoi uomini. Camminava da prua a poppa con passo nervoso, scrutando l’immensa distesa d’acqua e stringendo con una specie di rabbia l’impugnatura d’oro della sua splendida scimitarra.

      Alle dieci del mattino Mompracem scompariva sotto l’orizzonte, ma il mare appariva ancora deserto.

      Non uno scoglio in vista, non un pennacchio di fumo che indicasse la presenza di un piroscafo, non un punto bianco che segnalasse la vicinanza di qualche veliero. Una viva impazienza cominciava a invadere gli equipaggi dei due legni; gli uomini salivano e scendevano gli attrezzi imprecando, tormentavano le batterie dei fucili, facevano lampeggiare le lucenti lame dei loro avvelenati kriss e delle scimitarre.

      Ad un tratto, poco dopo il mezzodì, dall’alto dell’albero maestro s’udì una voce a gridare:

      – Ehi! guarda sottovento!

      Sandokan interruppe la sua passeggiata. Lanciò un rapido sguardo sul ponte del proprio legno, un altro su quello comandato da Giro-Batol, poi comandò:

      – Tigrotti! Ai vostri posti di combattimento!

      In meno che si dica i pirati, che si erano arrampicati sugli alberi, scesero in coperta, occupando i posti loro assegnati.

      – Ragno di Mare – disse Sandokan, rivolgendosi all’uomo rimasto in osservazione sull’albero. – Che cosa vedi?

      – Una vela, Tigre.

      – È una giunca?

      – È la vela di una giunca, non m’inganno.

      – Avrei preferito un legno europeo – mormorò Sandokan, corrugando la fronte. – Nessun odio mi spinge contro gli uomini del Celeste Impero. Ma chissà!… – Riprese la passeggiata e non parlò più.

      Passò una mezz’ora, durante la quale i due prahos guadagnarono cinque nodi, poi la voce del Ragno di Mare si fece ancora udire.

      – Capitano, è una giunca! – gridò. – Badate che ci ha scorti e che sta virando di bordo.

      – Ah! – esclamò Sandokan. – Ehi! Giro-Batol, manovra in modo da impedirle di fuggire.

      I due legni un momento dopo si separavano e, dopo descritto un ampio semicerchio, mossero a vele spiegate incontro al legno mercantile.

      Era questo uno di quei pesanti vascelli che si chiamano giunche, dalle forme tozze e di dubbia solidità, usati nei mari della Cina.

      Appena accortosi della presenza di quei due legni sospetti, contro i quali non poteva lottare di velocità, si era fermato, inalberando un gran drappo.

      Nel vedere quel vessillo, Sandokan fece un salto innanzi.

      – La bandiera del rajah Brooke, dello «Sterminatore dei pirati»! – esclamò, con intraducibile accento d’odio. – Tigrotti! all’abbordaggio! all’abbordaggio!… Un urlo selvaggio, feroce, s’alzò fra i due equipaggi, ai quali non era ignota la fama dell’inglese James Brooke, diventato rajah di Sarawack, nemico spietato dei pirati, un gran numero dei quali erano caduti sotto i suoi colpi.

      Patan, d’un balzo, fu al cannone di prua, mentre gli altri puntavano la spingarda ed armavano le carabine.

      – Devo cominciare? – chiese a Sandokan.

      – Sì, ma che la tua palla non vada perduta.

      – Sta bene!

      Di repente una detonazione echeggiò a bordo della giunca, ed una palla di piccolo calibro passò, con un acuto fischio, attraverso le vele. Patan si chinò sul suo cannone e fece fuoco, l’effetto fu pronto: l’albero maestro della giunca che si era spaccato alla base, oscillò violentemente innanzi e indietro e cadde in coperta, colle vele e tutti i suoi cordami. A bordo del disgraziato legno si videro degli uomini correre sulle murate e poi sparire.

      – Guarda, Patan! – gridò il Ragno di Mare.

      Un piccolo canotto, montato da sei uomini, erasi staccato dalla giunca e fuggiva verso le Romades.

      – Ah! – esclamò Sandokan, con ira. – Vi sono degli uomini che fuggono, invece di battersi! Patan fà fuoco su quei vili!

      Il malese lanciò a fior d’acqua un nembo di mitraglia che sfondò il canotto, fulminando tutti quelli che lo montavano.

      – Bravo, Patan! – gridò Sandokan. – Ed ora, rasami come un pontone quella nave, sulla quale vedo ancora un numeroso equipaggio. Dopo la manderemo a raddobbarsi nei cantieri del rajah, se ne ha!

      I due legni corsari ripresero l’infernale musica, scagliando palle, granate e nembi di mitraglia contro il povero legno, spaccandogli l’albero di trinchetto, sfondandogli le murate e le costole, recidendogli le manovre e uccidendogli i marinai che si difendevano disperatamente a colpi di fucile.

      – Bravi! – esclamò Sandokan, che ammirava il coraggio di quei pochi uomini rimasti sulla giunca.

      – Tirate, tirate ancora contro di noi! Siete degni di combattere contro la Tigre della Malesia!

      I due legni corsari, avvolti da fitte nuvole di fumo, dalle quali scattavano lampi, si avanzavano sempre e in brevi istanti furono sotto i fianchi della giunca.

      – Barra sottovento! – gridò allora Sandokan, che aveva impugnato la scimitarra.

      Il suo legno abbordò il mercantile sotto l’anca di babordo, e vi rimase attaccato, essendo stati lanciati i grappini d’abbordaggio.

      – All’assalto, tigrotti! – tuonò il terribile pirata.

      Si raccolse su se stesso, come una tigre che sta per lanciarsi sulla preda e fece atto di saltare, ma una mano robusta lo trattenne.

      Si

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