Le tigri di Monpracem. Emilio Salgari

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Le tigri di Monpracem - Emilio Salgari

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Ragno di Mare! – gridò Sandokan, alzando su di lui la scimitarra. Proprio in quell’istante un colpo di fucile partiva dalla giunca e il povero Ragno cadeva sul ponte fulminato.

      – Ah! grazie, mio tigrotto – disse Sandokan. – Volevi salvarmi!

      Si scagliò innanzi come un toro ferito, si aggrappò alla bocca di un cannone, si issò sul ponte della giunca e si precipitò fra i combattenti con quella pazza temerità che tutti ammiravano.

      L’intero equipaggio della nave mercantile si gittò addosso a lui per contrastargli il passo.

      – A me, tigrotti! – gridò egli, abbattendo due uomini col rovescio della scimitarra. Dieci o dodici pirati, arrampicandosi come scimmie su per gli attrezzi e saltando le murate, si slanciarono in coperta, mentre l’altro praho gettava i grappini d’abbordaggio.

      – Arrendetevi! – gridò la Tigre ai marinai della giunca.

      I sette od otto uomini che ancora sopravvivevano, vedendo altri pirati invadere la tolda, gettarono le armi.

      – Chi è il capitano? – chiese Sandokan.

      – Io – rispose un cinese, facendosi innanzi, tremando.

      – Tu sei un prode, ed i tuoi uomini sono degni di te – disse Sandokan. – Dove andavi?

      – A Sarawack.

      Una profonda ruga si disegnò sull’ampia fronte del pirata.

      – Ah! – esclamò con voce sorda. – Tu vai a Sarawack. E che cosa fa il rajah Brooke, lo «Sterminatore dei pirati»?

      – Non lo so, mancando da Sarawack da parecchi mesi.

      – Non importa, ma gli dirai che un giorno andrò a gettare l’ancora nella sua baia e che là attenderò i suoi legni. Oh! la vedremo se lo «Sterminatore dei pirati» sarà capace di vincere i miei.

      Poi si strappò dal collo una fila di diamanti del valore di tre o quattrocentomila lire e, porgendola al capitano della giunca, disse:

      – Prendi, mio valoroso. Mi rincresce di averti malmenato la giunca che tu hai così bene difesa, ma potrai con questi diamanti comperartene dieci di nuove.

      – Ma chi siete, voi? – chiese il capitano, stupito.

      Sandokan gli si avvicinò e, posandogli le mani sulle spalle, gli disse:

      – Guardami in viso: io sono la Tigre della Malesia.

      Poi, prima che il capitano e i suoi marinai potessero riaversi dal loro sbalordimento e dal loro terrore, Sandokan e i pirati erano ridiscesi nei loro legni.

      – La rotta? – chiese Patan.

      La Tigre stese il braccio verso l’est, poi, con voce metallica, nella quale sentivasi una grande vibrazione, gridò:

      – Tigrotti, a Labuan! a Labuan!

      L’INCROCIATORE

      Abbandonata la disalberata e sdruscita giunca, la quale però non correva pericolo di affondare, almeno pel momento, i due legni da preda ripresero la corsa verso Labuan, l’isola abitata da quella fanciulla dai capelli d’oro, che Sandokan voleva ad ogni costo vedere.

      Il vento si manteneva al nord-ovest e assai fresco ed il mare era ancora tranquillo, favorendo la corsa dei due prahos, i quali filavano dieci od undici nodi all’ora. Sandokan dopo di aver fatto ripulire il ponte, riannodare le manovre tagliate dalle palle nemiche, gettare in mare il cadavere del Ragno e di un altro pirata ucciso da una fucilata, e caricare i fucili e le spingarde, accese uno splendido narghilè proveniente senza dubbio da qualche bazar indiano o persiano, e chiamò Patan. Il malese fu pronto ad obbedire.

      – Dimmi, malese, – disse la Tigre, piantandogli in viso due occhi che mettevano paura, – sai come è morto il Ragno di Mare?

      – Sì – rispose Patan rabbrividendo, nel vedere il pirata tanto accigliato.

      – Quando io monto all’abbordaggio, sai qual è il tuo posto?

      – Dietro di voi.

      – E tu non c’eri e qui il Ragno è morto in vece tua.

      – È vero, capitano.

      – Dovrei farti fucilare per questa tua mancanza, ma tu sei un prode e io non amo sacrificare inutilmente i coraggiosi. Al primo abbordaggio tu ti farai uccidere alla testa dei miei uomini.

      – Grazie, Tigre.

      – Sabau – chiamò poscia Sandokan.

      Un altro malese, che aveva una profonda ferita attraverso il viso, si fece innanzi.

      – Sei stato tu il primo a saltare, dopo di me, sulla giunca? – gli chiese Sandokan.

      – Sì, Tigre.

      – Sta bene. Quando Patan sarà morto, tu gli subentrerai nel comando.

      Ciò detto attraversò a lenti passi il ponte e discese nella sua cabina situata a poppa.

      Durante la giornata i due prahos continuarono a veleggiare in quel tratto di mare compreso fra Mompracem e le Romades all’ovest, la costa del Borneo all’est e nord-est e Labuan e le Tre Isole al nord, senza incontrare alcun legno mercantile.

      La sinistra fama che godeva la Tigre si era sparsa in quei mari e pochissimi legni ardivano avventurarsi in quei luoghi. I più fuggivano quei paraggi, scorrazzati continuamente dai legni corsari e si tenevano sotto le coste, pronti, al primo pericolo, a gettarsi a terra onde salvare almeno la vita. Appena la notte cadde, i due legni terzarolarono le loro grandi vele onde premunirsi contro gli improvvisi colpi di vento, e si avvicinarono l’un l’altro per non perdersi di vista ed essere pronti a soccorrersi vicendevolmente. Verso la mezzanotte, nel momento in cui passavano dinanzi alle Tre Isole che sono le sentinelle avanzate di Labuan, Sandokan comparve sul ponte. Era sempre in preda ad una viva agitazione. Si mise a passeggiare da prua a poppa, colle braccia incrociate, rinchiuso in un feroce silenzio. Però di tratto in tratto si arrestava per scrutare la nera superficie del mare, saliva sulle murate per abbracciare un maggiore orizzonte, e poi si curvava e stava in ascolto. Cosa cercava di udire? Forse il brontolio di qualche macchina che indicasse la presenza di un incrociatore, oppure il fragore delle onde rompentisi sulle coste di Labuan?

      Alle tre del mattino, quando gli astri cominciavano ad impallidire, Sandokan gridò:

      – Labuan!

      Infatti, verso est, là dove il mare si confondeva coll’orizzonte, appariva confusamente una sottile linea oscura.

      – Labuan – ripetè il pirata, respirando, come se gli si fosse levato un gran peso che opprimevagli il cuore.

      – Dobbiamo andare innanzi? – chiese Patan.

      – Sì – rispose la Tigre. – Entreremo nel fiumicello che già conosci.

      Il comando fu trasmesso a Giro-Batol e i due legni si diressero in silenzio verso l’isola sospirata.

      Labuan, la cui superficie non oltrepassa i 116 chilometri quadrati, non era in quei tempi l’importante stazione navale che è oggidì.

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