Le tigri di Monpracem. Emilio Salgari

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Le tigri di Monpracem - Emilio Salgari

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studiava d’ingannarlo, però in fondo all’animo il fiero uomo si doleva di lasciare quei paraggi senza la rivincita. Avrebbe desiderato di trovarsi già a Mompracem, ma avrebbe anche desiderato un’altra tremenda battaglia. Egli, la formidabile Tigre della Malesia, l’invincibile capo dei pirati di Mompracem, aveva quasi vergogna d’andarsene così, alla chetichella, come un ladro notturno. Solamente quest’idea gli faceva bollire il sangue e gli faceva avvampare gli sguardi d’una collera tremenda. Oh! Come avrebbe salutato un colpo di cannone, anche quale segno di una nuova e più disastrosa disfatta! Il praho si era già allontanato di cinque o seicento passi dalla baia e si preparava a prendere il largo, quando a poppa, nella scia, apparve uno strano scintillìo. Pareva che miriadi di fiammelle sorgessero dalle profondità tenebrose del mare.

      – Stiamo per tradirci – disse Sabau.

      – Tanto meglio – rispose Sandokan con un sorriso feroce. – No, questa ritirata non era degna di noi.

      – È vero, capitano – rispose il malese. – Meglio morire colle armi in pugno che fuggire come sciacalli.

      Il mare continuava a diventare fosforescente. Dinanzi la prora e dietro la poppa di legno, i punti luminosi si moltiplicavano e la scia diventava ancor più luminosa. Pareva che il praho si lasciasse dietro un solco di bitume ardente o di zolfo liquefatto.

      Quella striscia, che scintillava vivamente fra l’oscurità circostante, non doveva passare inosservata agli uomini di guardia dell’incrociatore. Da un istante all’altro poteva tuonare improvvisamente il cannone.

      Anche i pirati, stesi sulla tolda, si erano accorti di quella fosforescenza, però nessuno aveva fatto un gesto solo o aveva pronunciato una sola parola che potesse tradire qualche apprensione. Anche loro non sapevano rassegnarsi ad andarsene senza sparare un colpo di fucile.

      Una grandine di mitraglia sarebbe stata salutata con un urlo di gioia. Erano appena trascorsi due o tre minuti, quando Sandokan, che teneva sempre gli sguardi fissi sull’incrociatore, vide accendersi i fanali di posizione.

      – Se ne sono accorti forse? – si chiese.

      – Lo credo, capo – rispose Sabau.

      – Guarda!

      – Sì, vedo che le scorie sfuggono più numerose dalla ciminiera. Si alimentano i fuochi.

      Ad un tratto Sandokan scattò in piedi colla scimitarra in pugno.

      – Alle armi! – avevano gridato a bordo del legno da guerra.

      I pirati si erano prontamente risollevati, mentre gli artiglieri si erano precipitati sul cannone e sulle due spingarde. Tutti erano pronti ad impegnare la lotta suprema.

      Dopo quel primo grido era successo un breve silenzio a bordo dell’incrociatore, ma poi la stessa voce, che il vento portava nettamente fino al praho, ripetè:

      – Alle armi! Alle armi! I pirati fuggono!

      Poco dopo si udì un tamburo rullare sul ponte dell’incrociatore. Si chiamavano gli uomini ai loro posti di combattimento.

      I pirati, addossati alle murate o affollati dietro alle barricate formate con tronchi d’albero, non fiatavano, ma i loro lineamenti, diventati feroci, tradivano il loro stato d’animo. Le loro dita si raggrinzavano sulle armi, impazienti di premere i grilletti delle loro formidabili carabine.

      Il tamburo continuava a rullare sul ponte del legno nemico. Si udivano le catene delle ancore stridere attraverso le cubie ed i colpi secchi dall’argano.

      Il vascello si preparava a lasciar l’ancoraggio per assalire la piccola nave corsara.

      – Al tuo pezzo, Sabau! – comandò la Tigre della Malesia. – Otto uomini alle spingarde!

      Aveva appena dato quel comando, quando una fiamma brillò a prora dell’incrociatore, sopra il castello, illuminando bruscamente il trinchetto ed il bompresso. Una detonazione acuta rintronò, seguita subito dal ronfo metallico del proiettile sibilante attraverso gli strati d’aria.

      Il proiettile smussò l’estremità del pennone maestro e si perdette in mare, sollevando un grande sprazzo spumeggiarne.

      Un urlo di furore echeggiò a bordo del legno corsaro. Ormai bisognava accettare la battaglia ed era ciò che desideravano quegli arditi schiumatori del mar Malese.

      Un fumo rossastro sfuggiva dalla ciminiera del vascello da guerra. Si udivano le ruote mordere affrettatamente le acque, i brontolii rauchi delle caldaie, i comandi degli ufficiali, i passi precipitati degli uomini. Tutti si affrettarono a correre ai loro posti di combattimento.

      I due fanali furono veduti cambiare posizione. Il vascello correva addosso al piccolo legno corsaro per tagliargli la ritirata.

      – Prepariamoci a morire da prodi! – gridò Sandokan, il quale ormai non s’illudeva sull’esito di quella tremenda pugna.

      Un urlo solo vi rispose:

      – Viva la Tigre della Malesia!

      Sandokan, con un vigoroso colpo di barra, virò di bordo, e mentre i suoi uomini orientavano rapidamente le vele, spinse il legno incontro al vascello per tentare di abbordarlo e scagliare i suoi uomini sul ponte del nemico.

      Il cannoneggiamento cominciò ben presto da una parte e dall’altra. Si sparava a palla ed a mitraglia.

      – Orsù, tigrotti, all’arrembaggio! – tuonò Sandokan. – La partita non è eguale, ma noi siamo le tigri di Mompracem!

      L’incrociatore si avanzava rapidamente, mostrando il suo acuto sperone e rompendo le tenebre ed il silenzio con un furioso cannoneggiamento. Il praho, vero giuocattolo di fronte a quel gigante, a cui bastava un solo urto per mandarlo a picco spaccato in due, con un’audacia incredibile assaliva pure, cannoneggiando meglio che poteva.

      La partita però, come aveva detto Sandokan, non era eguale, anzi era troppo disuguale. Nulla poteva tentare quel piccolo legno contro quella poderosa nave costruita in ferro, e armata potentemente.

      L’esito finale, malgrado il valore disperato delle tigri di Mompracem, non doveva essere difficile ad indovinare.

      Tuttavia i pirati non si perdevano d’animo e bruciavano le loro cariche con mirabile rapidità, tentando di sterminare gli artiglieri della coperta e di abbattere i marinai delle manovre, sparando furiosamente sul cassero, sul castello di prora e sulle coffe.

      Due minuti dopo però il loro legno, oppresso dai tiri delle artiglierie nemiche, non era altro che un rottame.

      Gli alberi erano caduti, le murate erano state sfondate e perfino le barricate di tronchi d’albero non offrivano più riparo a quella tempesta di proiettili. L’acqua di già entrava dai numerosi squarci, inondando la stiva. Pure nessuno parlava di resa. Volevano morire tutti, ma lassù, sul ponte nemico. Le scariche intanto diventavano sempre più tremende. Il pezzo di Sabau era ormai stato smontato e mezzo equipaggio giaceva sulla tolda massacrato dalla mitraglia.

      Sandokan comprese che l’ultima ora stava per suonare per le tigri di Mompracem.

      La sconfitta era completa. Non era più possibile far fronte a quel gigante che vomitava ad ogni istante nembi di proiettili. Non rimaneva che tentare l’abbordaggio, una pazzia, poiché nemmeno sul ponte dell’incrociatore la vittoria poteva arridere a quei valorosi.

      Non

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