Le tigri di Monpracem. Emilio Salgari

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Le tigri di Monpracem - Emilio Salgari

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a nudo la ferita e la osservò a lungo. Aveva ricevuta una palla, forse di pistola, sotto la quinta costola del fianco destro e quel pezzo di piombo, dopo di essere scivolato fra le ossa, si era perduto nell’interno, ma senza toccare, a quanto sembrava, alcun organo vitale. Forse quella ferita non era grave, ma poteva diventarlo se non si curava prontamente, e Sandokan, che se ne intendeva un po’, lo sapeva. Udendo a breve distanza il mormorio d’un ruscello, si trascinò fino là, aprì le labbra della ferita diventate gonfie al prolungato contatto con l’acqua marina, e le lavò accuratamente comprimendole poi fino a far uscire ancora alcune gocce di sangue.

      Le riunì per bene, le fasciò con un lembo della sua camicia, unico indumento che ancora teneva indosso, oltre la fascia sostenente il kriss.

      – Guarirò – mormorò egli quand’ebbe finito, e pronunziò quella parola con tanta energia da credere quasi che egli fosse l’arbitro assoluto della propria esistenza. Quell’uomo di ferro, quantunque abbandonato su quell’isola, dove non poteva trovare altro che nemici, senza un ricovero, senza risorse, sanguinante, senza una mano amica che lo soccorresse, era certo di uscire vittorioso da quella tremenda situazione.

      Bevette alcuni sorsi d’acqua per calmare la febbre che cominciava a prenderlo, poi si trascinò sotto un arecche le cui foglie gigantesche, lunghe non meno di quindici piedi e larghe cinque o sei, proiettavano all’intorno una fresca ombra. Vi era appena giunto che si sentì mancare nuovamente le forze. Chiuse gli occhi che roteavano in un cerchio sanguigno e dopo d’aver tentato, ma invano, di mantenersi ritto, cadde fra le erbe rimanendo immobile. Non si riebbe che molte ore dopo, quando già il sole dopo d’aver toccato l’ostro, scendeva verso occidente.

      Una sete bruciante lo divorava e la ferita non più rinfrescata, gli produceva dolori acuti, insopportabili.

      Cercò di rialzarsi per trascinarsi fino al ruscelletto, ma subito ricadde. Allora quell’uomo che voleva essere forte come la fiera di cui portava il nome, con uno sforzo potente, si rizzò sulle ginocchia, gridando quasi in tono di sfida:

      – Io sono la Tigre!… A me mie forze!…

      Aggrappandosi al tronco del betel, si rizzò in piedi e, mantenendosi su per un prodigio d’equilibrio e d’energia, camminò fino al piccolo corso d’acqua, sulla cui riva ricadde.

      Estinse la sete, bagnò nuovamente la ferita, poi si prese il capo fra le mani e fissò gli sguardi sul mare che veniva a frangersi a pochi passi, gorgogliando sordamente.

      – Ah! – esclamò egli, digrignando i denti. – Chi avrebbe detto che un giorno i leopardi di Labuan avrebbero vinte le tigri di Mompracem?

      «Chi avrebbe detto che io, l’invincibile Tigre della Malesia, sarei approdato qui, sconfitto e ferito? Ed a quando la vendetta? La vendetta!… Tutti i miei prahos, le mie isole, i miei uomini, i miei tesori pur di distruggere questi odiati uomini bianchi che mi disputano questo mare!

      «Cosa importa se oggi mi hanno fatto mordere la polvere, quando fra un mese o due tornerò qui coi miei legni a lanciare su queste spiagge le mie formidabili bande assetate di sangue?

      «Cosa importa se oggi il leopardo inglese va superbo della sua vittoria? Sarà lui allora che cadrà moribondo ai miei piedi!

      «Tremino allora tutti gli inglesi di Labuan, perché mostrerò alla luce degli incendi la mia sanguinosa bandiera!»

      Il pirata, così parlando, si era nuovamente rialzato cogli occhi fiammeggianti, agitando minacciosamente la destra come se stringesse ancora la terribile scimitarra, fremente, tremendo. Anche ferito era pur sempre l’indomabile Tigre della Malesia.

      – Pazienza per ora, Sandokan – riprese egli, ricadendo fra le erbe e gli sterpi.

      – Guarirò, dovessi vivere un mese, due, tre in questa foresta e cibarmi di ostriche e di frutta; ma quando avrò ricuperate le mie forze tornerò a Mompracem, dovessi costruirmi una zattera o assalire una canoa ed espugnarla a colpi di kriss. Stette parecchie ore disteso sotto le larghe foglie dell’arecche, guardando cupamente le onde che venivano a morire quasi ai suoi piedi con mille mormoni. Pareva che cercasse, sotto quelle acque, gli scafi dei suoi due legni colati in quei paraggi o i cadaveri dei suoi disgraziati compagni.

      Una febbre fortissima intanto lo assaliva, mentre sentiva ondate di sangue salirgli al cervello. La ferita gli produceva spasimi incessanti, ma nessun lamento usciva dalle labbra del formidabile uomo.

      Alle otto il sole precipitò all’orizzonte e, dopo un brevissimo crepuscolo, le tenebre calarono sul mare ed invasero la foresta.

      Quell’oscurità produsse un’inesplicabile impressione sull’animo di Sandokan. Ebbe paura della notte, lui, il fiero pirata, che non aveva mai temuto la morte e che aveva affrontato con coraggio disperato i pericoli della guerra ed i furori delle onde!

      – Le tenebre! – esclamò egli sollevando la terra colle unghie. – Io non voglio che scenda la notte!… Io non voglio morire!…

      Si compresse con ambo le mani la ferita, poi si alzò di scatto. Guardò il mare ormai diventato nero come se fosse di inchiostro; guardò sotto gli alberi indagando la loro cupa ombra; poi, preso forse da un improvviso assalto di delirio, si mise a correre come un pazzo, internandosi nella selva. Dove andava? Perché fuggiva? Certamente una strana paura l’aveva invaso. Nel suo delirio gli pareva di udire in lontananza l’abbaiare di cani, grida d’uomini, ruggiti di fiere. Egli credeva forse di essere già stato scoperto e di venire inseguito. Ben presto quella corsa divenne vertiginosa. Completamente fuori di sé, si precipitava innanzi all’impazzata, scagliandosi in mezzo ai cespugli, balzando sopra tronchi atterrati, varcando torrenti e stagni, urlando, imprecando ed agitando forsennatamente il kriss, la cui impugnatura, tempestata di diamanti, mandava fugaci bagliori.

      Continuò così per dieci o quindici minuti, internandosi sempre più sotto gli alberi, destando colle sue grida gli echi della foresta tenebrosa, poi s’arrestò ansante, trafelato.

      Aveva le labbra coperte d’una schiuma sanguigna e gli occhi sconvolti. Agitò pazzamente le braccia, poi rovinò al suolo come un albero schiantato dalla folgore.

      Delirava; la testa gli pareva che fosse lì lì per iscoppiare e che dieci martelli gli percuotessero le tempie. Il cuore gli balzava nel petto, come se volesse uscirgli e dalla ferita gli sembrava che uscissero torrenti di fuoco.

      Credeva di vedere nemici dappertutto. Sotto gli alberi, sotto i cespugli, in mezzo alla frane ed alle radici che serpeggiavano per suolo, i suoi occhi scorgevano uomini nascosti, mentre per l’aria gli sembrava di veder volteggiare legioni di fantasmi, e di scheletri danzanti intorno alle grandi foglie degli alberi.

      Degli esseri umani sorgevano dal suolo gementi, urlanti, chi colle teste sanguinanti, chi colle membra tronche e coi fianchi squarciati. Tutti ridevano, sghignazzavano, come se si beffassero dell’impotenza della terribile Tigre della Malesia. Sandokan, in preda ad uno spaventevole accesso di delirio, si rotolava al suolo, si alzava, cadeva, tendeva le pugna e minacciava tutti.

      – Via di qua, cani! – urlava. – Cosa volete da me?… Io sono la Tigre della Malesia e non vi temo!… Venite ad assalirmi se l’osate!…

      «Ah! Voi ridete?… Mi credete impotente perché i leopardi hanno ferita e vinta la Tigre?… No, non ho paura!…

      «Perché mi guardate con quegli occhi di fuoco?… Perché venite a danzarmi intorno?… Anche tu Patan vieni a deridermi?.. Anche tu Ragno di Mare?… Maledetti, vi ricaccerò nell’inferno da cui siete usciti!… E tu Kimperlain, cosa vuoi?… non è bastata dunque la mia scimitarra ad ucciderti… Via tutti, tornate in fondo al mare… nel regno delle tenebre… negli

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