Le tigri di Monpracem. Emilio Salgari

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Le tigri di Monpracem - Emilio Salgari

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i suoi uomini in coperta.

      – Presto, gettate una barricata dinanzi ai cannoni e poi avanti!

      In un baleno, a prua dei due legni furono accumulati alberi di ricambio, botti piene di palle, vecchi cannoni smontati, e rottami d’ogni sorta, formando una solida barricata. Venti uomini, i più robusti, ridiscesero per manovrare i remi, ma gli altri si affollarono dietro alle barricate colle mani raggrinzate attorno alle carabine e i denti stretti sui pugnali che scintillavano fra le frementi labbra.

      – Avanti! – comandò la Tigre.

      L’incrociatore aveva arrestato la sua marcia retrograda e ora si avanzava a piccolo vapore, vomitando torrenti di fumo nero.

      – Fuoco a volontà – gridò la Tigre.

      Da ambe le parti si riprese la musica infernale, rispondendo colpo per colpo, palla per palla, mitraglia contro mitraglia.

      I tre legni, decisi a soccombere, ma non a retrocedere, non si scorgevano quasi più, avvolti come erano da immense nuvole di fumo che una calma ostinata manteneva sopra i ponti, ma ruggivano con egual furore e i lampi si succedevano ai lampi e le detonazioni alle detonazioni.

      Il vascello aveva il vantaggio della sua mole e delle sue artiglierie, ma i due prahos, che la valorosa Tigre conduceva all’abbordaggio, non cedevano. Rasi come pontoni, forati in cento luoghi, sdrusciti, irriconoscibili, già coll’acqua nella stiva, già pieni di morti e di feriti, continuavano a tirare innanzi, malgrado il continuo tempestare di palle.

      Il delirio si era impadronito di quegli uomini e tutti altro non chiedevano che di salire sul ponte di quel formidabile vascello e, se non di vincere, almeno di morire sul campo del nemico.

      Patan, fedele alla parola data, si era fatto uccidere dietro al suo cannone, ma un altro abile artigliere aveva preso il suo posto; altri uomini erano caduti e altri ancora, orrendamente feriti, colle braccia o colle gambe mozzate, si dibattevano disperatamente fra torrenti di sangue.

      Un cannone era stato smontato sul praho di Giro-Batol e una spingarda non tirava quasi più, ma che importava?

      Sul ponte dei due legni restavano altre tigri assetate di sangue, che facevano valorosamente il loro dovere.

      Il ferro fischiava sopra quei prodi, staccava braccia e sfondava petti, rigava i ponti, schiantava le murate, frantumava ogni cosa, ma nessuno parlava di retrocedere, anzi insultavano il nemico e lo sfidavano ancora e, quando un colpo di vento sbarazzava quei poveri legni dai nuvoloni che li coprivano, si vedevano, dietro le semi-infrante barricate, volti foschi e raggrinzati dal furore, occhi iniettati di sangue che schizzavano fuoco ad ogni lampeggiar delle artiglierie, denti che scricchiolavano sulle lame dei pugnali e in mezzo a quell’orda di vere tigri, il loro capo, l’invincibile Sandokan, il quale, colla scimitarra in pugno, lo sguardo ardente, i lunghi capelli sciolti sugli omeri, incoraggiava i combattenti con una voce che risuonava come una tromba fra il rimbombo dei cannoni. La terribile battaglia durò venti minuti, poi l’incrociatore si portò altri seicento passi più indietro, per non venire abbordato.

      Un urlo di furore scoppiò a bordo dei due prahos, a quella nuova ritirata. Ormai non era più possibile lottare con quel nemico che, approfittando della sua macchina, evitava ogni abbordaggio. Sandokan però non voleva ancora cedere.

      Rovesciando con una irresistibile spinta gli uomini che lo circondavano si curvò sul cannone che era stato caricato, corresse la mira e vi diede fuoco. Pochi secondi dopo l’albero di maestra dell’incrociatore, sparato alla base, precipitava in mare assieme a tutti i bersaglieri delle coffe e delle crocette. Mentre il vascello si arrestava per salvare i suoi uomini che stavano per affogare e sospendeva il fuoco, Sandokan approfittava per imbarcare sul proprio legno l’equipaggio di Giro-Batol.

      – Ed ora, alla costa e di volata! – tuonò.

      Il praho di Giro-Batol, che si manteneva a galla per un vero prodigio, fu subito sgombrato ed abbandonato alle onde col suo carico di cadaveri e col suo pezzo d’artiglieria ormai inservibile.

      Subito i pirati misero mano ai remi ed approfittando dell’inazione del vascello da guerra, s’allontanarono in fretta rifugiandosi nel fiumicello. Era tempo! Il povero legno, che faceva acqua da tutte le parti, non ostante i tappi cacciati frettolosamente nei fori aperti dalle palle dell’incrociatore, affondava lentamente.

      Gemeva come un moribondo sotto il peso del liquido invasore e traballava, tendendo ad inchinarsi a babordo.

      Sandokan, che si era messo alla barra del timone, lo diresse verso la sponda vicina e lo arenò su d’un banco di sabbia.

      Appena i pirati s’accorsero che non correva più alcun pericolo di affondare, irruppero sulla tolda come un branco di tigri affamate, colle armi in pugno, i lineamenti contratti pel furore, pronti a ricominciare la lotta con egual ferocia e risoluzione.

      Sandokan li arrestò con un gesto, poi disse, guardando l’orologio che portava alla cintura:

      – Sono le sei: fra due ore il sole sarà scomparso e le tenebre piomberanno sul mare. Che ognuno si metta alacremente al lavoro onde il praho, per la mezzanotte, sia pronto a riprendere il mare.

      – Attaccheremo l’incrociatore? – chiesero i pirati, agitando freneticamente le armi.

      – Non ve lo prometto, ma vi giuro che verrà ben presto il giorno in cui noi vendicheremo la sconfitta. Noi mostreremo, al balenare dei cannoni, la nostra bandiera sventolar sui bastioni di Vittoria.

      – Viva la Tigre! – urlarono i pirati.

      – Silenzio – tuonò Sandokan. – Si mandino due uomini alla foce del fiumicello a spiare l’incrociatore e altri due nei boschi, onde evitare di farci sorprendere, si curino i feriti, poi tutti al lavoro.

      Mentre i pirati si affrettavano a fasciare le ferite riportate dai loro compagni, Sandokan si recò a poppa e stette alcuni minuti in osservazione, spingendo lo sguardo verso la baia, il cui specchio d’acqua si scorgeva fra uno squarcio della foresta. Cercava senza dubbio di scoprire l’incrociatore, ma questo pareva che non avesse osato spingersi troppo vicino alla costa, forse per la tema d’incagliarsi sui numerosi banchi di sabbia che colà si estendevano.

      – Egli sa di tenerci – mormorò il formidabile pirata. – Aspetta che noi usciamo nuovamente in mare per sterminarci, ma se crede che io lanci i miei uomini all’abbordaggio s’inganna. La Tigre sa anche essere prudente.

      Si sedette sul cannone, poi chiamò Sabau.

      Il pirata, uno dei più valorosi, che si era già guadagnato il grado di sottocapo, dopo d’aver giuocata venti volte la propria pelle, accorse.

      – Patan e Giro-Batol sono morti – gli disse Sandokan con un sospiro. – Si sono fatti uccidere sul loro praho, alla testa dei valorosi che cercavano di trascinare addosso alla nave maledetta. Il comando spetta ora a te e te lo conferisco.

      – Grazie, Tigre della Malesia.

      – Tu sarai valoroso al pari di loro.

      – Quando il mio capo mi comanderà di farmi uccidere, sarò pronto ad obbedirlo.

      – Ora aiutami.

      Radunarono le loro forze, spinsero a poppa il cannone e le spingarde, e le puntarono verso la piccola baia onde spazzarla a colpi di mitraglia, nel caso che le scialuppe dell’incrociatore avessero tentato di forzare la foce del fiumicello.

      – Ora

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