Le tigri di Monpracem. Emilio Salgari
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Читать онлайн книгу Le tigri di Monpracem - Emilio Salgari страница 10
I dodici pirati, cogli occhi stravolti, schiumanti di rabbia, colle pugna chiuse come tenaglie attorno alle armi, facendosi scudo coi cadaveri dei compagni, gli si strinsero attorno.
Il vascello correva allora a tutto vapore addosso al praho, per affondarlo collo sperone, ma Sandokan, appena lo vide a pochi passi, con un colpo di barra evitò l’urto e lanciò il suo legno contro la ruota di babordo del nemico. Avvenne un urto violentissimo. Il legno corsaro si piegò sul tribordo imbarcando acqua e rovesciando morti e feriti in mare.
– Lanciate i grappini! – tuonò Sandokan.
Due grappini d’arrembaggio s’infissero nelle griselle dell’incrociatore. Allora i tredici pirati, pazzi di furore, assetati di vendetta, si slanciarono come un sol uomo all’arrembaggio.
Aiutandosi colle mani e coi piedi, aggrappandosi agli sportelli delle batterie e alle gomene, s’arrampicarono su per la tambura, raggiunsero le murate e si precipitarono sul ponte dell’incrociatore, prima ancora che gli inglesi, stupiti da tanta audacia, avessero pensato a ributtarli.
Colla Tigre della Malesia alla testa si scagliarono contro gli artiglieri, massacrandoli sui loro pezzi, sbaragliarono i fucilieri che erano accorsi per sbarrare loro il passo, poi, tempestando colpi di scimitarra a destra e a sinistra, si diressero verso poppa.
Colà, alle grida degli ufficiali, si erano prontamente radunati gli uomini della batteria. Erano sessanta o settanta, ma i pirati non si fermarono a contarli e si gettarono furiosamente sulle punte delle baionette impegnando una lotta titanica. Avventando colpi disperati, troncando braccia e spaccando teste, urlando per spargere maggior terrore, cadendo e rialzandosi, ora indietreggiando ed ora avanzando, per alcuni minuti tennero testa a tutti quei nemici, ma, moschettati dagli uomini delle coffe, sciabolati a tergo, incalzati dinanzi alle baionette, quei valorosi caddero.
Sandokan e quattro altri, coperti di ferite, colle armi insanguinate fino all’impugnatura, con uno sforzo poderoso si aprirono il passo e tentarono di guadagnare la prua, per arrestare a colpi di cannone quella valanga d’uomini.
A metà del ponte Sandokan cadde colpito in pieno petto da una palla di carabina, ma subito si rialzò, urlando: – Ammazza! Ammazza!… Gli inglesi si avanzavano a passo di carica colle baionette calate. L’urto fu mortale.
I quattro pirati che si erano gettati dinanzi al loro capitano per coprirlo, sparvero fra una scarica di fucili, rimanendo stecchiti; ma non così accadde alla Tigre della Malesia.
Il formidabile uomo, malgrado la ferita che mandava fiotti di sangue, con un salto immenso raggiunse la murata di babordo, abbattè col troncone della scimitarra un gabbiere che cercava di trattenerlo e si gettò a capofitto in mare, scomparendo sotto i neri flutti.
LA «PERLA DI LABUAN»
Un tale uomo dotato di una forza così prodigiosa, di una energia così straordinaria e di un coraggio così grande, non doveva morire.
Infatti, mentre il piroscafo proseguiva la sua corsa trasportato dalle ultime battute delle ruote, il pirata con un vigoroso colpo di tallone risaliva a galla e si portava al largo, per non venire tagliato in due dallo sperone del nemico o preso a colpi di fucile.
Rattenendo i gemiti che gli strappava la ferita e frenando la rabbia che lo divorava, si rannicchiò, tenendosi quasi del tutto sommerso, in attesa del momento opportuno per guadagnare le coste dell’isola.
Il legno da guerra virava allora di bordo, a meno di trecento metri. Si avanzò verso il luogo dove si era inabissato il pirata, colla speranza di sbranarlo sotto le ruote, poi tornò a virare.
Si arrestò un momento, come se volesse scrutare quel tratto di mare da lui agitato, poi ripigliò la marcia tagliando in tutti i versi quella porzione d’acqua, mentre i marinai, calatisi nella rete della delfiniera e sulle bancazze, proiettavano per ogni dove la luce di alcuni fanali.
Convinto dell’inutilità delle ricerche, alla fine s’allontanò in direzione di Labuan.
La Tigre emise allora un grido di furore.
– Va’, vascello esecrato! – esclamò. – Va’, ma verrà il giorno in cui ti mostrerò quanto sia terribile la mia vendetta!
Si passò la fascia sulla sanguinante ferita, per arrestare l’emorragia che poteva ucciderlo, poi, raccogliendo le proprie forze, si mise a nuotare, cercando le spiagge dell’isola.
Venti volte però il formidabile uomo si arrestò per guardare il legno da guerra che appena appena distingueva e per lanciargli dietro una terribile minaccia. Vi erano certi momenti in cui quel pirata, ferito forse mortalmente, forse ancora assai lontano dalle coste dell’isola, si metteva ad inseguire quel legno che gli aveva fatto mordere la polvere e lo sfidava con urla che più nulla avevano di umano.
La ragione finalmente la vinse, e Sandokan riprese il faticoso esercizio scrutando le tenebre che gli nascondevano le coste di Labuan. Nuotò così per parecchio tempo, fermandosi di tratto in tratto per riprendere lena e sbarazzarsi delle vesti che lo impacciavano, poi sentì che le forze gli venivano rapidamente meno.
Gli si irrigidivano le membra, la respirazione gli diventava sempre più difficile, e per colmo di disgrazia la ferita continuava a gettar sangue, producendogli dolori acuti pel contatto coll’acqua salata.
Si raggomitolò su se stesso e si lasciò trasportare dal flusso, agitando debolmente le braccia. Cercava di riposare alla meglio per riprendere lena. Ad un tratto sentì un urto. Qualche cosa lo aveva toccato. Era stato un pescecane forse? A quell’idea, non ostante il suo coraggio da leone, si sentì accapponare la pelle.
Allungò istintivamente la mano e afferrò un oggetto scabroso che pareva galleggiasse a fior d’acqua.
Lo tirò a sé e vide che si trattava d’un rottame. Era un pezzo di coperta del praho a cui erano ancora appese delle funi e un pennone.
– Era tempo – mormorò Sandokan. – Le mie forze se ne andavano.
Si issò faticosamente sul rottame, mettendo allo scoperto la ferita, dai cui margini, gonfi e rosi dall’acqua marina, usciva ancora un filo di sangue. Per un’altra ora, quell’uomo che non voleva morire, che non voleva darsi vinto, lottò colle onde, che volta a volta sommergevano il rottame, ma poi le forze gli vennero meno e s’accasciò su se stesso, colle mani però chiuse ancora intorno al pennone.
Cominciava ad albeggiare quando un urto violentissimo lo strappò da quell’accasciamento, che poteva anche chiamarsi quasi uno svenimento. Si alzò faticosamente sulle braccia e guardò dinanzi a sé. Le onde si frangevano con fracasso intorno al rottame, accartocciandosi e spumeggiando. Pareva che rotolassero su dei bassifondi.
Attraverso come ad una nebbia sanguigna, il ferito scorse a breve distanza una costa.
– Labuan – mormorò. – Approderò qua, sulla terra dei miei nemici?
Ebbe una breve esitazione ma poi, radunate le forze, abbandonò quelle tavole che lo avevano salvato da una morte quasi certa e sentendo sotto i piedi un banco sabbioso, si avanzò verso la costa.
Le onde lo urtavano da tutte le parti, urlandogli intorno come molossi in furore, tentando di abbatterlo ed ora spingendolo, ora respingendolo. Pareva che volessero impedirgli di giungere su quella terra maledetta. S’avanzò barcollando attraverso i banchi di sabbia e, dopo d’aver lottato contro le ultime ondate della risacca, raggiunse la sponda coronata di grandi alberi, lasciandosi