Il Libro Nero. Barrili Anton Giulio
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– Voi siete, messer lo conte, – disse il pellegrino inchinandosi profondamente, – il più magnifico e liberal cavaliero che al mondo sia. —
A Fiordaliso si sbiancarono le guancie; delle labbra non saprei dirvi, perchè il biondo adolescente, vinto nella sua poetica tenzone al cospetto e per sentenza di conte Ugo, le aveva raccolte tra i denti, e premea forte, in atto dispettoso. Era quello il primo giorno di sua vita che cosa alcuna gli avesse a dolere; e il cominciamento fu amaro.
Tanto per fare alcun che, e per non addimostrare il suo broncio, il povero paggio andò a togliere il liuto dalle mani del pellegrino e lo recò fuor della sala.
– Va, stromento d'inferno! – gridò egli stizzito, buttandolo su d'una cassapanca che era nella sua camera. – E adesso aspetta che io ti ripigli!
Il povero liuto, che non ci avea colpa, risuonò alla percossa; le corde mandarono un gemito, quasi un accento di rimprovero. Ma il paggio non si pentì dell'opera sua, e chiusosi l'uscio dietro le spalle, se ne andò a parare il vento su d'un terrazzo, molto lunge dalla sala dov'erano i convitati del conte.
CAPITOLO IV
Levate le mense a notte alta, conte Ugo accomiatò gli amici, non già dal castello, perchè erano ospiti suoi, ma dalla sala del convito. Allora si fecero innanzi i famigli, che già stavano pronti con le torce di resina in mano, e scortarono ognuno dei nobili cavalieri nelle stanze a lui assegnate.
Per tal modo, non rimasero presso il conte Ugo che il pellegrino e mastro Benedicite, strozziere, maggiordomo, ser faccenda di Roccamàla.
Ugo era sopra pensieri, poichè la conversazione e il canto del suo nuovo ospite lo avevano fortemente turbato; ma siccome egli era gentil cavaliere, la mestizia non poteva fargli dimenticare il debito suo verso gli ospiti.
– Messer pellegrino – diss'egli – a me duole di non potere usarvi tutta quella cortesia che si vorrebbe per un uomo della vostra levatura. Roccamàla è un ampio maniero, ma pieno d'amici, ed io non posso offerirvi che un alloggiamento indegno di voi… salvo il caso che vi acconciate a riposare nella torre del Negromante.
– Che dite voi, messer lo conte? – gridò mastro Benedicite. – Farlo alloggiar nella torre…
– No, io non ho detto questo; sibbene ho voluto far intendere al nostro ospite come io non possa offerirgli una stanza degna di lui.
– Che cos'è questa torre del Negromante? – domandò il pellegrino.
– Ah, per darvene una giusta notizia, mi bisognerebbe raccontarvi una storia troppo lunga, e tale da farvi addormentare sulla scranna. Roccamàla, messer pellegrino, è un triste luogo, ed io mi penso che la tristezza sua entri in gran parte nell'umor nero che ha regnato su sette generazioni de' miei antenati. Si narrano di questo castello le più paurose leggende… Figuratevi! Il conte Ugo, primo dei Roccamàla, nella sua vecchiaia si era dato anima e corpo allo studio delle scienze naturali, e la buona gente dei dintorni fantasticò che egli avesse commercio con lo spirito maligno. Quando egli venne a morte, quella torre, dov'egli era uso dimorare, e che ha tolto da lui il nome di Negromante, fu argomento di terrore per tutti, e pochi ardirono d'allora in poi di passarvi la notte.
– Ah, ah! – disse, ridendo, il pellegrino. – Storielle da metter paura ai bambini!..
– Lo dico anch'io, – rispose il conte – ma tant'è; la cosa è passata in consuetudine, e non si può levar dal capo a nessuno de' miei vassalli che in quella torre ci sia un incantesimo, un diavoleto e che so io… Ma che cosa volete dir voi, mastro Benedicite, che mi fate quegli occhi da spiritato?
– Dico, messer lo conte, che voi mi sembrate pigliare a scherno la cosa più vera del mondo; dico che il diavoleto c'è, e che la storia non mente…
– Sì, la storia… tutto quello che vorrete, ma intanto il libro nero non s'è mai potuto trovare.
– Che prova ciò, messere?
– Prova che le sono ubbie da bambini, o da vecchi rimbambiti; e ciò sia detto senza far torto a voi, che siete un uomo a modo, quantunque troppo facile a credere certe stramberie della gente volgare.
– Ah! ci abbiamo dunque a Roccamàla una vecchia leggenda? – soggiunse il pellegrino. – Io son ghiotto di simili novità. Narratemi questa leggenda, Benedicite mi dilectissime! Se debbo andare a dormir nella torre, è pur ragionevole che io sappia…
– Ci andrete? – dimandò lo strozziere, guardando il pellegrino con atto di maraviglia.
– Se ci andrò? Lo chiedo per grazia profumata dal conte di Roccamàla. E chi sa che io, con le sante reliquie e le indulgenze che porto da Roma, non venga a capo di togliere dalla torre del Negromante…
– Ah! così voi diceste il vero! – interruppe mastro Benedicite. – Io, per me, con buona pace del magnifico conte Ugo, credo che ne sia grande il bisogno.
– Ma raccontatemi dunque, ve ne prego in nome dei vostri diletti falconi, o nobile accipitrario – disse il pellegrino, alludendo alla professione del falconiere – che cosa avviene egli in quella torre del Negromante?
– La è una storia lunga – rispose mastro Benedicite – siccome vi ha detto messer lo conte pur mo', ed ha cominciato da Ugo il Negromante, che dopo aver preso il convento ai monaci di San Bernardo, per farne una rocca, si trasse il diavolo in casa con le sue stregonerie.
– Cioè – soggiunse il conte – furono i monaci che inventarono questa storia del diavolo, per vendicarsi della perdita del convento. Ma basti, ve la dirò io, questa leggenda, poichè il mio falconiere ci menerebbe troppo per le lunghe. Si narra adunque che, dopo la morte di Ugo il Negromante, in certe notti dell'anno si vedessero apparir fiamme dalle finestre della torre che sta sul burrone; che poi queste fiamme si vedessero ogni notte; e v'ebbe chi giurò d'aver veduto nel bagliore il profilo del mio antenato. Altri disse del diavolo; altri di tutt'e due, che stessero amichevolmente a colloquio. Comunque sia, cose strane si vedevano; e frattanto, chi dormiva nelle stanze della torre non udiva mai nulla, non si addava di nulla; che anzi, appena postosi a letto, era côlto da sonno così profondo che fino a giorno inoltrato non c'era più verso di svegliarlo. Notate, messer pellegrino; non sono io che vi narro queste cose; è la cronaca di Roccamàla. Ed essa narra eziandio che, dopo molti anni di queste paurose apparizioni, uno dei miei maggiori, Aleramo il biancamano, mandò pei monaci, e con donativi alla loro comunità cercò di renderseli benevoli, affinchè cacciassero il demonio dalla torre del Negromante. Ma, o fosse che i loro scongiuri non approdassero, o che non bastassero i presenti del mio trisavolo, fatto sta che il demonio non volle uscir fuori, e bisognò chiamare quassù il santo vescovo Gualberto, uscito dall'ordine de' Cisterciensi medesimi, il quale una notte si chiuse nel luogo maledetto, dopo essersi fatto dare un foglio di pergamena, chiuso in una fascia di pelle nera, e non ricomparve che la mattina seguente. Ma egli pare che il santo vescovo avesse sfruttato per bene il suo tempo, imperocchè corse la voce che egli avesse parlato con lo spirito maligno, e trovatolo duro anzichè no, avesse pure ottenuto da lui la promessa di non rimetter più piede in Roccamàla, sotto certe condizioni, le quali furono scritte nella pergamena e sottoscritte dai due in formis ed modis. Dico bene, mastro Benedicite?
– Benissimo, messer lo conte, benissimo!
– E