avesse comprato il suo ritorno, avrebbe pur anche espiata con opportuna penitenza la propria colpa; e la prima e necessaria testimonianza di pentimento sarebbe stata una ritrattazione o dichiarazione del suo operato: ed il Sig. Gibbon istesso par che ne abbia veduta la necessità, come ancora la vide quell'impostore, che ci ha lasciato un frammento di una lettera comunicatoria sotto il nome di quel Pontefice diretta a S. Atanasio181. Ora il pentimento dei Vescovi ingannati a Rimini vien contestato da molti Autori contemporanei182; ma nè Sulpizio Severo, nè Socrate, nè Sozomeno, nè Teodoreto fanno menzione di quel di Liberio. Aggiungete, che questo Papa scrivendo ai Vescovi dell'Italia183 dopo il Concilio Riminese, dice che sebbene vi fossero alcuni di parere non esse parcendum his qui apud Ariminum ignorantes egerunt, ei però pensa diversamente, così esprimendosi: sed mihi, cui convenit omnia MODERATE perpendere, maxime cum et Egyptii omnes et Achivi hanc adunati sententiam receperint (secondo la correzione degli Editori Benedettini) visum est parcendum quidem his, de quibus supra tractavimus. Qui pone in veduta Liberio, che il Sovrano Pontefice debba essere moderato: qui egli sembra determinarsi pel perdono a contemplazione ancora dei Greci e degli Egiziani. Ma come avrebbe potuto mostrar di esitare a concedere perdonanza a dei Vescovi pentiti di ciò che ignorantes egerant in una causa, in cui egli medesimo avesse lasciata vincere la sua fermezza e fosse stato colpevole condiscendente? E come ostentare moderazione senza esporsi alle risa, ed alle invettive degli emuli, e forse di quei medesimi, a cui accordava il perdono? Unite tali riflessioni alle testimonianze degli Storici sopraccitati184, e decidete se la caduta di Liberio non debba aversi per favolosa, giacchè quello, che si ha di essa in S. Atanasio, ed ha fatto illusione a tanti illustri Scrittori, si dimostra esser parto di una mano ignorante o maligna; e supposti eziandio interpolati, ed indegni di S. Ilario si provano quei testi, che per essere stati da molti tenuti per genuini, rendevano indubitata la caduta di Liberio185. Io però mi sarei contentato186, che il Sig. Gibbon avesse citato Ruffino là dove dice187; Liberius Romae Episcopus, Costantio vivente, regressus est. Sed hoc utrum quod acquieverit voluntati suae ad subscribendum, an ad populi R. gratiam, a quo proficiscens fuerat exoratus, indulgens pro certo compertum non habeo. Non è però da pretendersi questa sincerità e moderazione da chi mette in dubbio i fatti più certi, e che talora anche li nega od oscura. Incominciamo dalla riedificazione del tempio di Gerusalemme tentata in van da Giuliano. «La demolizione dell'antico tempio, dice il Sig. della Bleterie188, era terminata, e senza pensarvi si erano rigorosamente adempiute le parole di Cristo: non relinquetur lapis super lapidem, qui non destruatur189. Si vollero gettar le nuove fondamenta, ma usciron dal luogo medesimo vortici spaventosi di fiamme, che con formidabili slanci divorarono i lavoranti. Lo stesso accadde diverse volte, e l'ostinazione del fuoco rendendo inaccessibile quel luogo, costrinse ad abbandonare per sempre l'impresa». Son questi gli stessi termini di Ammiano Marcellino, autore contemporaneo190. Ruffino191, Teodoreto192, Socrate193, Sozomeno194, Filostorgio confermano il fatto attestato altresì da tre Padri coetanei ancor essi Gio. Grisostomo, Ambrogio e Gregorio Nazianzeno, dal primo vent'anni dopo davanti a tutta Antiochia195, dal secondo non molto dopo, come cosa notissima scrivendo all'Imperatore Teodosio; dal terzo in uno196 dei suoi discorsi contro Giuliano composto l'anno medesimo. Non vi è adunque, conchiude il Mosemio197, avvenimento certo sì come è questo. Tuttavolta a sentimento di Gibbon, un Filosofo potrà sempre domandare l'original testimonianza d'intelligenti ed imparziali Spettatori. Sì certamente potrà domandar un filosofo Spinosista, od uno che sembra insultare i Santi Ortodossi sfidandoli a scegliere intorno alla celebre morte d'Arrio o il veleno o un miracolo, quand'ei fu sempre attorniato da una folla di Eusebiani; sì uno che ha la franchezza di domandare col Sig. Jortin chi prova la verità dei miracoli dei Monaci antichi Egiziani, mentre quello, che asserisce Teodoreto198 del Monaco S. Giuliano, può con ragione asserirsi di quasi tutti: magnitudinis autem miracolorum factorum ab illo testes etiam sunt hostes veritatis. Qui non si tratta di un fenomeno passaggiero, come è un fuoco fatuo, od una stella cadente; i vortici di fuoco si videro diverse volte: metuendi globi flammarum prope fundamenta crebris assultibus erumpentes fecere locum exustis ALIQUOTIES operantibus inaccessum. Nè i testimoni del fatto son puri Cattolici, e però tali da non dispiacer loro un miracolo. Ve n'ha degli Eterodossi, ve n'è un Pagano giudizioso e candido storico per confessione del Sig. Gibbon, e spettatore IMPARZIALE della vita e della morte di Giuliano, per non contarsi Giuliano medesimo199. Considerate poi se la nazione Giudaica, di cui gli uomini si erano dimenticati della loro avarizia, e le donne della loro delicatezza per agevolare la sospirata intrapresa; se il Monarca, che si proponeva di stabilire in quel tempo un ordine di Sacerdoti, l'interessato zelo dei quali scuoprisse le arti, e resistesse all'ambizion dei Cristiani loro rivali, ed invitarvi gli Ebrei, il forte fanatismo dei quali sarebbe sempre stato pronto a secondare ed anche prevenire le ostili misure dal Paganesimo; se il virtuoso, dotto, fortissimo Alipio, che presiedeva coraggiosamente a quell'opera; se Libanio l'adulatore più sfacciato, che abbian conosciuto le Corti, sarebber sempre rimasti in un vergognoso silenzio, quando tante bocche Cristiane gridarono altamente al miracolo? Conchiuderò dunque col lodato Mosemio: «Chiunque esaminerà questo fatto con attenzione e senza parzialità, troverà le più forti ragioni di aderire all'opinion di coloro, che lo attribuiscono all'azione immediata della Divinità. Gli argomenti, che si propongono per provare che fu un fenomeno naturale, o come altri il pretendono, effetto dell'arte e dell'impostura, non hanno solidità, e si possono confutare con la maggiore facilità».
Un altro fatto oscuro pel Sig. Gibbon è lo scisma dei Donatisti. Forse, egli dice, la loro causa fu decisa giustamente, e forse non era priva di fondamento la lor querela, che si fosse ingannata la credulità dell'Imperatore: Due cose però egli tiene per ferme, la prima che il vantaggio, che Ceciliano poteva trarre dall'anteriorità della sua Ordinazione veniva tolto di mezzo dall'illegittima od almeno indecente fretta, con cui si era fatta senza aspettare l'arrivo dei Vescovi della Numidia; la seconda è che i due partiti non ostante il loro irreconciliabile odio avevan gli stessi costumi, lo stesso zelo e dottrina, la istessa fede e lo stesso culto. Ma per quanta oscurità possa trovarsi in tal fatto sappiamo da S. Ottato Milevitano200 e da S. Agostino201, cioè da scrittori i meglio informati di tutta la controversia, che l'ambizion di Bostro e Celesio, i quali con Lucilla formarono il rabbiosissimo scisma, impedì l'intervento dei Vescovi della Numidia all'elezione di Ceciliano: che questi fu eletto con i suffragi di tutto il popolo, e quindi ordinato dal Vescovo di Aptonga, città vicina a Cartagine, e conseguentemente a norma del costume vegliante, in quel modo appunto che il Vescovo Romano si consacrava da quello d'Ostia. E ciò è tanto vero, che cent'anni dopo pretendendo i Donatisti, che Ceciliano fosse stato condannato per non aver ricevuta l'ordinazione dal Primate Numida, S. Agostino fu in grado di sostenere, che questa ommissione neppur gli era stata obiettata. Infatti Ceciliano all'arrivo dei Vescovi della Numidia era già unito con tutta Cartagine, trattine pochi Scismatici, e per mezzo delle usate lettere comunicatorie con la Chiesa di Roma, con tutte quelle dell'Affrica e dell'Universo. Non credeva adunque la Chiesa Cattolica, che l'anteriorità dell'ordinazione di Ceciliano venisse tolta di mezzo dall'assenza dei Numidi, nè poteva crederlo per le ragioni addotte, e nol credevano gli stessi faziosi: perocchè, non trovando delitto da rimproverare a Ceciliano, si ridussero ad asserire contro la verità che il Vescovo Aptungitano Consecrante era uno dei traditori.
Hieron. Dial. adv. Lucifer. Damas. presso Teodoret. L. 2. Hist. Eccl. c. 22. Lib. med. presso Socr. l. 4. Hist. XII.
183
Nei Framm. di S. Ilario pag. 1357. Ediz. dei Mon. Benedet.
184
Sulpic. Sever. Hist. Sacr. L. 2. c. 39. Socr. Hist. E. L. 2. c. 37.
185
Vedi il Cap. IV. e V. della cit. Dissert. De Comment. ec.
186
L. I. Hist. c. 27.
187
L'A. non ha troppo buon sangue coi Papi. Il carattere di Damaso è molto ambiguo, e tre parole di Girolamo Sanctae Memoriae Damasus, lavano tutte le sue macchie, ed abbagliano i devoti occhi del Tillemont. Si trovan però dileguate presso questo Scrittore le calunnie, dalle quali fu attaccato quel Santo Pontefice. Si cita inoltre Teodoreto L. V. c. 2., che parla così di Damaso: Is erat Episcopus Romae vita laudabili conspicuus, quique sibi dicenda, faciendaque omnia pro Apostolicis dogmatis statuerat., e nel L. IV. c. 30 lo pone nella classe medesima con i due SS. Gregorio, e con S. Ambrogio. Allega ancora l'autorità del Concilio Calcedonese che nell'allocuzione all'Imperatore Marciano si espresse in questi termini. Sic quoque Damasus Romanae urbis decus ad justitiam, ovvero Romanae urbis Episcopus, et justitia decus. Appella per fine a non pochi antichissimi Martirologi, nei quali con S. Girolamo si legge nominato S. Damaso. Non sono dunque tre parole quelle che hanno abbagliato gli occhi devoti del Tillemont. Vedi T. VIII. Memor.
188
Vie de l'Empereur Julien L. V. p. 396.
189
Marc. L. XIII. V. 1. 2.
190
Lib. 23. c. 1.
191
L. I. c. 38, 39.
192
L. 3. c. 17.
193
L. 3. c. 17.
194
L. V. c. ult.
195
Adv. Judeos Orat. 2, Hom. 4 in Matth.; Homil. 41 in Act. Apost.
196
Greg. Naz. Orat. 2. in Julian.
197
Sec. IV. 1. p. n. 14.
198
L. IV. c. 27.
199
M. della Bleterie pag. 399 in una Nota.
200
Adv. Parmentanum.
201
De Unit. Eccl., Cont. Petilian., Cont. Cresc. in Epist. et alibi passim.