Storia della decadenza e rovina dell'impero romano, volume 10. Edward Gibbon
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Gli Arabi46, simili agl'Indiani in questo, adoravano il sole, la luna, le stelle, superstizione affatto naturale, che pur fu quella dei primi popoli. Pare che quegli astri luminosi offrano in cielo l'immagine visibile della Divinità: il numero e la distanza loro danno al filosofo, come al volgo, l'idea di uno spazio illimitato; sta un'impronta d'eternità su que' globi che non sembrano soggetti nè a corruzione, nè a deperimento, e pare che il loro movimento regolare annunci un principio di ragione o d'istinto, e la loro reale o immaginaria influenza mantiene l'uomo nella vana idea che oggetto speciale delle lor cure sieno la terra e i suoi abitatori. Babilonia coltivò l'astronomia come una scienza, ma non aveano gli Arabi altra scuola, nè altra specola fuorchè un cielo limpido, e un territorio tutto piano. Ne' lor viaggi notturni prendeano a guida le stelle; mossi da curiosità, o da divozione, ne aveano imparato i nomi, le situazioni relative e il luogo del cielo ove comparivano ogni giorno: dall'esperienza aveano appreso a dividere in ventotto parti lo Zodiaco della luna e a benedire le costellazioni che versavano piogge benefiche sull'assetato deserto. Non potea l'impero di que' corpi raggianti stendersi al di là della sfera visibile, e sicuramente ammetteasi dagli Arabi qualche potenza spirituale necessaria per presedere alla trasmigrazion dell'anime, e alla risurrezion de' corpi: si lasciava morire un cammello sul sepolcro d'un Arabo, acciocchè potesse servire il padrone nell'altra vita, e poichè invocavano l'anime dopo morte, doveano ad esse supporre sentimento e potere. Io non conosco bene, e poco mi cale di conoscere la cieca mitologia di que' Barbari, le divinità locali cui poneano nelle stelle, nell'aria e su la terra, i sessi e i titoli di que' Dei, le loro attribuzioni o la gerarchia. Ogni tribù, ogni famiglia, ogni guerriero independente creava, e cangiava a suo talento i riti non che gli oggetti del suo culto; ma in tutti i secoli quella nazione, per molti rispetti, accettò la religione del pari che l'idioma della Mecca. L'antichità della Caaba precede l'Era cristiana. Il greco istorico Diodoro47 accenna nella sua descrizione della costa del mar Rosso, che tra il paese de' Tamuditi e quello de' Sabei sorgeva un Tempio famoso di cui tutti gli Arabi veneravano in santità: quel velo di lino o di seta che tutti gli anni è colà mandato dall'imperatore de' Turchi, fu la prima volta offerto da un pio re degli Omeriti, che regnava sette secoli prima di Maometto48. Potè il culto de' primi Selvaggi esser contento d'una tenda o d'una caverna, ma poi si innalzò un edifizio di pietra e d'argilla, e non ostante l'incremento dell'arti, e la potenza propria non si scostarono i re dell'Oriente dalla semplicità del primo modello49. La Caaba ha la forma d'un parallelogrammo cinto da un vasto portico; vi si vede una cappella quadrata, lunga ventiquattro cubiti, larga ventitre, alta ventisette, che riceve luce da una porta e da una finestra: il suo doppio tetto è sostenuto da tre colonne di legno; l'acqua pluviale cade da una grondaia, che presentemente è d'oro, e una cupola difende dalle sozzure accidentali il pozzo di Zemzem. Coll'arte, o colla forza ebbe la tribù dei Coreishiti in custodia la Caaba; l'avo di Maometto esercitò la dignità sacerdotale da quattro generazioni inveterata nella sua famiglia, la quale era quella degli Hashemiti, la più reverenda e la più sacra del paese50. Il recinto della Mecca avea le prerogative del santuario, e nell'ultimo mese d'ogn'anno la città ed il Tempio erano pieni d'una moltitudine di pellegrini che recavano alla casa di Dio voti ed offerte. Queste cerimonie, anche al dì d'oggi osservate dal fedel Musulmano, furono introdotte e praticate dalla superstizione degl'idolatri. Giunti ad una certa distanza, si spogliavano delle vestimenta, faceano sette volte rapidamente il giro della Caaba, e sette volte baciavano la pietra nera, e visitavano sette volte e adoravano le montagne vicine, e gettavano in sette riprese alcune pietre nella valle di Mina, e le cerimonie del pellegrinaggio terminavano, allora come adesso, con un sagrificio di pecore, e di cammelli, la lana e l'unghie de' quali si seppellivano nel terreno sacro. Le varie tribù trovavano o introducevano nella Caaba gli oggetti del lor culto particolare. Era quel Tempio ornato, o piuttosto deformato, da trecentosessanta idoli che figuravano uomini, aquile, lioni, gazelle; il più notabile era la statua di Hebal, d'agata rossa, che teneva in mano sette frecce senza capo o penne, istrumenti e simboli d'una profonda divinazione; ma questo simulacro era un monumento dell'arto de' Siri. Alla divozione de' tempi
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Il Voltaire ha inserito nel suo Zadig una Novella familiare (il Cane ed il Cavallo) per provare l'accortezza naturale degli Arabi (d'Herbelot,
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Pocock (
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Sale,
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D'Herbelot,
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Tutto quello che ora può sapersi dell'idolatria degli Arabi antichi si trova in Pocock, (
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Ιερον αγιωτατον ιδρυται τιμωμενον υπο παντων Αραβων περιττοτερον si vede un Tempio famoso venerato per santissimo da tutti gli Arabi (Diod. di Sicilia, t. I, l. III, p. 211); la qualità e il sito concordano tanto che mi fa maraviglia come siasi letto questo passo curioso senza avvertirlo e senza badare all'applicazione. Pure Agatarcide (
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Pocock,
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La pianta originale della Caaba, servilmente copiata dal Sale, dagli autori della Storia universale, ec. è un abbozzo fatto da un Turco, che Reland (
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Sembra che Cosa, quinto antenato di Maometto, usurpasse la Caaba (A. D. 440); ma Iannabi (Gagnier,