Storia della decadenza e rovina dell'impero romano, volume 10. Edward Gibbon

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Storia della decadenza e rovina dell'impero romano, volume 10 - Edward Gibbon

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fondamento dell'alfabeto moderno, inventate furono sulle rive dell'Eufrate, e poco dopo introdotte alla Mecca da un forestiero, che quivi si domiciliò dopo la nascita di Maometto. L'eloquenza naturale degli Arabi era estranea alle regole grammaticali, poetiche, e rettoriche, ma avevan essi gran sagacità, ricca fantasia, frasi energiche e sentenziose42; i loro discorsi composti, pronunciati con gran forza, facevano molta impressione sull'uditorio. L'ingegno e il valore d'un poeta nascente erano dalla sua tribù, e dalle alleate per tutto decantati. S'imbandiva un solenne banchetto; un coro di donne battendo i timballi, in un assetto da giorno nuziale, cantavano davanti a' figli e agli sposi la fortuna della loro tribù; erano vicendevoli le congratulazioni pel nuovo campione che s'apparecchiava a sostenere le loro ragioni, pel nuovo eroe che doveva immortalare il lor nome. Le tribù più remote e le più nemiche fra loro, andavano ad una fiera annuale, abolita poi dal fanatismo de' primi Musulmani, e siffatta assemblea nazionale debbe pure aver contribuito molto a dirozzare, ed a familiarizzare insieme que' Barbari. Trenta giorni spendeansi a permutare biada e vino, non che a recitare componimenti d'eloquenza e di poesia. La magnanima gara de' poeti veniva disputando il premio, e l'Opera che ottenea la corona si deponeva negli archivi de' principi e degli Emiri: furono recati in idioma inglese i sette poemi originali impressi in lettere d'oro, e appesi nel tempio della Mecca43. I poeti Arabi erano gli storici e i moralisti del loro secolo; e se partecipavano a' pregiudizii de' concittadini, incoraggiavano almeno e premiavano la virtù. Godevano cantando l'unione della generosità e del valore, e ne' sarcasmi contro qualche tribù spregevole, il più amaro rimbrotto era questo, che gli uomini non sapeano dare, e le donne non sapeano rifiutare44. Ne' campi degli Arabi si scontra quella ospitalità, che si usava da Abramo, e che si cantava da Omero. I feroci Beduini, terrore del deserto, accolgono, senza esame e senza esitazione, lo straniero che osa affidarsi all'onore di quelli, e porre il piede nelle lor tende. Sono trattati con amicizia e con riguardo. Egli entra a parte della ricchezza o della povertà del suo ospite, e quando ha passato riposo, viene rimesso in via, con ringraziamenti, con benedizioni, e fors'anche con donativi. Danno gli Arabi anche pruove di più generosa cordialità verso i fratelli, e gli amici che sono in bisogno: gli atti eroici che loro meritarono gli encomii di tutte le tribù sono senza dubbio di quelli che trapassavano, anche ai lor occhi, gli angusti limiti della prudenza e dell'uso comune. Si faceano dispute per sapere quale tra i cittadini della Mecca superasse gli altri in generosità: per metterli a la pruova, un giorno si rivolsero a tre di quelli, fra cui erano bilanciati i suffragi. Abdallah, figlio d'Abbas, partiva per un lungo viaggio: avea già il piede nella staffa, quando un pellegrino fattosi a lui dinnanzi gli volse queste parole: «figlio dello zio dell'apostolo divino, vedi un viaggiatore, che è miserabile.» Abdallah smontò subito da cavallo, offerse al supplicante il proprio cammello, col suo ricco vestiario, e con una borsa di quattromila monete d'oro; non ritenne che la spada, sia perchè fosse di buona tempera, sia che ricevuta l'avesse da un parente rispettato. Il servo di Kais disse al secondo supplicante: «il mio padrone dorme, ma tu ricevi quella borsa di settemila monete d'oro: questo è quanto abbiamo in casa: eccoti di più un ordine, a vista del quale ti sarà dato un cammello e uno schiavo». Il padrone, quando fu desto, diede gran lodi al suo fedele ministro, e lo fece libero, con un mite rimprovero di avere, rispettando il suo sonno, messo limiti alla sua liberalità. Il cieco Arabah era l'ultimo de' tre Eroi: mentre il mendico ricorse a lui, camminava appoggiato sulla spalla di due schiavi: «oimè, esclamò, i miei forzieri son voti; ma tu puoi vendere questi due schiavi: e quando tu non li accettassi, io non li voglio più.» A queste parole, respinse da sè i due schiavi, o cercò brancollando l'appoggio d'una muraglia. Abbiamo in Hatem un perfetto modello delle virtù degli Arabi45: era prode, liberale, poeta eloquente, ladro scaltrito: metteva ad arrostire quaranta cammelli per li suoi conviti ospitali, e se un nemico veniva supplichevole, gli restituiva i prigioni, e il bottino. L'independenza de' suoi concittadini non curava le leggi della giustizia, ma tutti orgogliosamente seguivano il libero impulso della compassione e della benevolenza.

      Gli Arabi46, simili agl'Indiani in questo, adoravano il sole, la luna, le stelle, superstizione affatto naturale, che pur fu quella dei primi popoli. Pare che quegli astri luminosi offrano in cielo l'immagine visibile della Divinità: il numero e la distanza loro danno al filosofo, come al volgo, l'idea di uno spazio illimitato; sta un'impronta d'eternità su que' globi che non sembrano soggetti nè a corruzione, nè a deperimento, e pare che il loro movimento regolare annunci un principio di ragione o d'istinto, e la loro reale o immaginaria influenza mantiene l'uomo nella vana idea che oggetto speciale delle lor cure sieno la terra e i suoi abitatori. Babilonia coltivò l'astronomia come una scienza, ma non aveano gli Arabi altra scuola, nè altra specola fuorchè un cielo limpido, e un territorio tutto piano. Ne' lor viaggi notturni prendeano a guida le stelle; mossi da curiosità, o da divozione, ne aveano imparato i nomi, le situazioni relative e il luogo del cielo ove comparivano ogni giorno: dall'esperienza aveano appreso a dividere in ventotto parti lo Zodiaco della luna e a benedire le costellazioni che versavano piogge benefiche sull'assetato deserto. Non potea l'impero di que' corpi raggianti stendersi al di là della sfera visibile, e sicuramente ammetteasi dagli Arabi qualche potenza spirituale necessaria per presedere alla trasmigrazion dell'anime, e alla risurrezion de' corpi: si lasciava morire un cammello sul sepolcro d'un Arabo, acciocchè potesse servire il padrone nell'altra vita, e poichè invocavano l'anime dopo morte, doveano ad esse supporre sentimento e potere. Io non conosco bene, e poco mi cale di conoscere la cieca mitologia di que' Barbari, le divinità locali cui poneano nelle stelle, nell'aria e su la terra, i sessi e i titoli di que' Dei, le loro attribuzioni o la gerarchia. Ogni tribù, ogni famiglia, ogni guerriero independente creava, e cangiava a suo talento i riti non che gli oggetti del suo culto; ma in tutti i secoli quella nazione, per molti rispetti, accettò la religione del pari che l'idioma della Mecca. L'antichità della Caaba precede l'Era cristiana. Il greco istorico Diodoro47 accenna nella sua descrizione della costa del mar Rosso, che tra il paese de' Tamuditi e quello de' Sabei sorgeva un Tempio famoso di cui tutti gli Arabi veneravano in santità: quel velo di lino o di seta che tutti gli anni è colà mandato dall'imperatore de' Turchi, fu la prima volta offerto da un pio re degli Omeriti, che regnava sette secoli prima di Maometto48. Potè il culto de' primi Selvaggi esser contento d'una tenda o d'una caverna, ma poi si innalzò un edifizio di pietra e d'argilla, e non ostante l'incremento dell'arti, e la potenza propria non si scostarono i re dell'Oriente dalla semplicità del primo modello49. La Caaba ha la forma d'un parallelogrammo cinto da un vasto portico; vi si vede una cappella quadrata, lunga ventiquattro cubiti, larga ventitre, alta ventisette, che riceve luce da una porta e da una finestra: il suo doppio tetto è sostenuto da tre colonne di legno; l'acqua pluviale cade da una grondaia, che presentemente è d'oro, e una cupola difende dalle sozzure accidentali il pozzo di Zemzem. Coll'arte, o colla forza ebbe la tribù dei Coreishiti in custodia la Caaba; l'avo di Maometto esercitò la dignità sacerdotale da quattro generazioni inveterata nella sua famiglia, la quale era quella degli Hashemiti, la più reverenda e la più sacra del paese50. Il recinto della Mecca avea le prerogative del santuario, e nell'ultimo mese d'ogn'anno la città ed il Tempio erano pieni d'una moltitudine di pellegrini che recavano alla casa di Dio voti ed offerte. Queste cerimonie, anche al dì d'oggi osservate dal fedel Musulmano, furono introdotte e praticate dalla superstizione degl'idolatri. Giunti ad una certa distanza, si spogliavano delle vestimenta, faceano sette volte rapidamente il giro della Caaba, e sette volte baciavano la pietra nera, e visitavano sette volte e adoravano le montagne vicine, e gettavano in sette riprese alcune pietre nella valle di Mina, e le cerimonie del pellegrinaggio terminavano, allora come adesso, con un sagrificio di pecore, e di cammelli, la lana e l'unghie de' quali si seppellivano nel terreno sacro. Le varie tribù trovavano o introducevano nella Caaba gli oggetti del lor culto particolare. Era quel Tempio ornato, o piuttosto deformato, da trecentosessanta idoli che figuravano uomini, aquile, lioni, gazelle; il più notabile era la statua di Hebal, d'agata rossa, che teneva in mano sette frecce senza capo o penne, istrumenti e simboli d'una profonda divinazione; ma questo simulacro era un monumento dell'arto de' Siri. Alla divozione de' tempi

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<p>42</p>

Il Voltaire ha inserito nel suo Zadig una Novella familiare (il Cane ed il Cavallo) per provare l'accortezza naturale degli Arabi (d'Herbelot, Bibl. orient. p. 120, 121; Gagnier, Vie de Mahomet, t. I, p. 37-46); ma d'Arvieux, o piuttosto La Roque (Voyage de la Palestine, p. 92), ha negata la superiorità di che si dan vanto i Beduini. Le cento sessantanove sentenze di Alì (tradotte in inglese da Ockley, a Londra, 1718) sono un saggio dello spirito de' frizzi in cui son singolari gli Arabi.

<p>43</p>

Pocock (Specimen, p. 158-161) e Casiri (Bibl. Hisp. Arab., t. I, p. 48-84, ec., 119; t. II, p. 17, ec.) parlano de' poeti Arabi anteriori a Maometto. I sette poemi della Caaba furono stampati in inglese da Sir William Jones; ma l'onorevole missione che gli fu commessa nell'India ci ha privato delle sue note molto più interessanti che non quel testo vieto ed oscuro.

<p>44</p>

Sale, Discours prélim., p. 29, 30.

<p>45</p>

D'Herbelot, Bibl. orient., p. 458; Gagnier, Vie de Mahomet, t. III, p. 118. Caab, e Hesno (Pocock, Specim. p. 43, 46, 48) si segnalaron anch'essi nella liberalità, ed un poeta arabo dice elegantemente di quest'ultimo: Videbis eum cum accesseris exultantem, ac si dares illi quod ab illo petis.

<p>46</p>

Tutto quello che ora può sapersi dell'idolatria degli Arabi antichi si trova in Pocock, (Specim., p. 89, 136, 163, 164). La sua profonda erudizione è stata interpretata in modo ben chiaro e conciso dal Sale (Discours prélim., p. 14-24); e l'Assemani (Bibl. orient., t. IV, p. 580-590) ha aggiunto annotazioni preziose.

<p>47</p>

Ιερον αγιωτατον ιδρυται τιμωμενον υπο παντων Αραβων περιττοτερον si vede un Tempio famoso venerato per santissimo da tutti gli Arabi (Diod. di Sicilia, t. I, l. III, p. 211); la qualità e il sito concordano tanto che mi fa maraviglia come siasi letto questo passo curioso senza avvertirlo e senza badare all'applicazione. Pure Agatarcide (De mari Rubro, p. 58, in Hudson, t. I.), copiato da Diodoro nel resto di quella descrizione, non fa motto di quel celebre Tempio. Forse che il Siciliano ne sapea più che l'Egizio? O fu costrutta la Caaba tra l'anno di Roma 650 e il 746, tempo in cui componevano i loro libri? (Dodwell, in Dissertat. ad. t. I, Hudson, p. 72; Fabricio, Bibl. graec., t. II. p. 770).

<p>48</p>

Pocock, Specimen, p. 60, 61. Dalla morte di Maometto retrocediamo a sessantott'anni, e dalla sua nascita a cento ventinove anni avanti l'Era cristiana. Il velo, o la tela, che oggi è di seta e d'oro, non fu anticamente che una stoffa di lino d'Egitto. (Abulfeda, Vit. Mohammed, c. 6, p. 14).

<p>49</p>

La pianta originale della Caaba, servilmente copiata dal Sale, dagli autori della Storia universale, ec. è un abbozzo fatto da un Turco, che Reland (De religione Mohammed, p. 113-123) ha corretta e spiegata colla scorta di buone autorità. Si consulti su la Leggenda e la Descrizione della Caaba il Pocock (Specimen, p. 115-122), la Bibliothèque orientale del di Herbelot (Caaba, Hagier, Zemzem, etc.), e il Sale (Disc. prélimin. p. 114-122).

<p>50</p>

Sembra che Cosa, quinto antenato di Maometto, usurpasse la Caaba (A. D. 440); ma Iannabi (Gagnier, Vie de Mahomet, t. I, p. 65-69) e Abulfeda (Vit. Mohammed, c. 6, p. 13) raccontano il fatto diversamente.